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BRERA VIEWS - COMMENTI E OPINIONI
CHE SI POSSONO LEGGERE SOLO QUI




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Questo Stato così clemente…

di Nicola Sardi

(Dicembre 1999) Va bene che siamo nell'anno del Giubileo che perdonerà ogni peccato commesso, ma, francamente, nessuno si aspettava tanta indulgenza da parte dello Stato italiano!

Infatti, col recente schema di decreto legislativo che il Governo dovrebbe approvare a giorni e far entrare in vigore, lo Stato perdonerà una moltitudine di reati, considerati minori, anche se già resi definitivi con sentenza irrevocabile… Si accontenterà di sostituire tali sentenze penali irrevocabili con delle sanzioni amministrative, che poi metterà all'incasso!

Avevamo recentemente segnalato ("Sulle tracce di un condono" in rubrica Views) come questo atto di clemenza fosse alle porte, quale esercizio del potere di delega ottenuto dal governo grazie alla legge quadro emessa dal parlamento all'inizio della scorsa estate: la depenalizzazione dei reati fiscali e dei cosiddetti reati minori. Ora che abbiamo potuto leggere sui giornali il testo predisposto dall'apposita commissione, in corso di definizione per la sua imminente entrata in vigore, ci siamo sorprendentemente resi conto di quanto magnanimo voglia essere questo nostro Stato nei confronti anche dei pregiudicati!

È quanto emerge dalle disposizioni transitorie e finali del testo del decreto legislativo, ove all'articolo 100 si sancisce l'applicabilità delle nuove sanzioni amministrative anche alle violazioni anteriormente commesse e, in particolare modo, con lo straordinario articolo 101, che al primo comma prevede che "se i procedimenti penali per le violazioni depenalizzate dal presente decreto legislativo sono stati definiti, prima della sua entrata in vigore, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza o il decreto… dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti".

Ciò significa, ad esempio, stante la prevista depenalizzazione del reato d'emissione di assegno senza provvista (a vuoto), che con l'art. 29 diventa un illecito amministrativo punito solo con la sanzione pecuniaria da lire 1 milione a lire 6 milioni o da lire 2 milioni a lire 12 milioni, se l'importo dell'assegno protestato è superiore a lire 20 milioni o nel caso di reiterazione, che tutti i soggetti che hanno subìto in precedenza una condanna definitiva per tale reato, riceveranno dal giudice dell'esecuzione una letterina di remissione della pena, con richiesta di pagamento (per assegno?) della nuova sanzione pecuniaria prevista.

Sembra proprio che lo Stato italiano abbia scelto, cioè, per il vile denaro, di rinunciare alla propria pretesa punitiva…


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Quando una tassa affossa la giustizia

di Nicola Sardi

(Dicembre 1999) In Italia il diritto alla difesa in giudizio è costituzionalmente garantito, e precisamente dall'articolo 24 della nostra Legge fondamentale. Da tale principio costituzionale è nata la scuola giuridica dei cosiddetti garantisti, della quale il signor ministro Visco non fa parte, in quanto ha manifestato di avere per essa assai scarsa simpatia e poco rispetto...

Abbiamo appreso come anche in seno alla maggioranza e allo stesso governo di cui Visco fa parte, siano emerse perplessità (vedi ad esempio Fantozzi) per il nuovo intervento voluto dal ministro delle Finanze con il collegato alla finanziaria del 2000: la tassa sulla giustizia civile. Oltre che alla naturale opposizione della minoranza, anche tutti i consigli degli Ordini forensi si erano inoltre mobilitati contro il nuovo progetto ideato da Visco, in quanto gli avvocati, su questo fronte, in passato avevano avanzato istanze contro gli aumenti indiscriminati dei costi della giustizia dei processi civili. Avevano lamentato, per esempio, gli aumenti astronomici del foglio di carta bollata, passato in meno di quindici anni dalle 700 alle 20.000 lire, dei relativi diritti di iscrizione a ruolo e di cancelleria, e dell'onerosa imposta fissa di registro (oltre a quella proporzionale) di 500.000 lire per i decreti ingiuntivi superiori a 2 milioni, anche per crediti già assoggettati ad Iva.

Ecco l'originale colpo di bacchetta magica del signor ministro nella proposta di collegato: "Soppressione dell'imposta di bollo, della tassa di iscrizione a ruolo e dei diritti di cancelleria per gli atti ed i provvedimenti relativi ai procedimenti civili, penali ed amministrativi, sostituite da un contributo unificato di iscrizione a ruolo".

Il consiglio dell'Ordine degli avvocati di Milano, nell'indire un'urgente Assemblea dei suoi iscritti, sull'intestazione della nuova proposta di legge, ha sostenuto che si tratta di "poche parole, in apparenza innocue, con le quali il Ministro delle Finanze tenta di scippare la Giustizia dalle mani dei cittadini, di quelli meno abbienti, impedendo loro di adire la Giustizia a tutela dei propri diritti e dei propri interessi, considerato l'enorme aumento previsto per il suddetto contributo unificato. Tutto questo avviene in spregio a quanto sancito dalla Carta costituzionale, che stabilisce la garanzia del diritto alla Giustizia per tutti i cittadini e in disaccordo con quanto avviene negli altri Paesi della Comunità Europea".

Nel comunicato si precisava che con un simile provvedimento, sebbene nel bilancio dello Stato le entrate provenienti dall'amministrazione della giustizia costituiscano già, per entità, la terza voce (anche se per essa si destina poi come uscita una somma irrisoria...) e nonostante le generali e lecite aspettative, il ministro delle Finanze si opponga così alla completa defiscalizzazione del processo, da anni sostenuta dagli avvocati. In sostanza, cioè, questa proposta di legge, se passasse, pur garantendo ulteriori entrate al relativo capitolo di bilancio, renderebbe la Giustizia, già paralizzata dai tempi notoriamente lenti, mediamente più cara e quindi ancor più insopportabile per i cittadini che appartengono ai ceti sociali medi e medio-bassi: si attuerebbe, cioè, una vera Giustizia da ricchi!

A causa quindi dei pesanti attacchi sia interni che esterni, il signor ministro ha ora accettato di ritoccare il suo progetto originario, attenuando gli oneri. Cambia l'intestazione della norma (art. 9), che diventa "Contributo unificato per le spese degli atti giudiziari" e cambia, soprattutto, la tabella che dovrebbe entrare in vigore dal 1° luglio 2000. Vediamola. Spariscono le imposte di bollo, i diritti di cancelleria e le tasse d'iscrizione a ruolo. Nei procedimenti giurisdizionali civili, amministrativi e in materia tavolare, comprese le procedure concorsuali e di volontaria giurisdizione, per ciascun grado di giudizio, si pagheranno, da parte di chi per primo si costituisce in giudizio, o deposita ricorso o fa istanza, a pena d'irricevibilità dell'atto, i seguenti importi:

L'esenzione fino a 2 milioni già esisteva. Positiva è invece l'introduzione dell'esenzione da imposta di registro dei verbali di conciliazione fino a 100 milioni. Obiettivamente, si è diminuito l'onere sui procedimenti di minor valore, compensando il carico maggiore, rispetto alla prima formulazione, sulle cause di valore oltre i 50 milioni.

È certo, comunque, che mediamente vi saranno maggiori entrate grazie a questo nuovo contributo rispetto al passato: ad esempio, uno svantaggio già evidente è dato ogni qualvolta la causa non consegua il suo normale iter, non giungendo, cioè, alla decisione, ma si fermi all'inizio per abbandono o sistemazione stragiudiziale. In questi casi, tutt'altro che infrequenti, la parte che avrà pagato il contributo per l'intero grado di giudizio non avrà infatti diritto ad alcun rimborso!

Il signor ministro Visco, anziché non far pagare più i processi, introduce così questa nuova tassa, denominata contributo unificato, che affosserà, di fatto, definitivamente la Giustizia italiana, alla faccia della Costituzione e, quindi, del garantismo e del giusto processo!


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L'Italia uscirà dall'Unione Europea a causa della sua giustizia tartaruga?
Mancano solo sei mesi per saperlo!

di Nicola Sardi

(Dicembre 1999) Ecco il dato che aspettavamo di conoscere con ansia: 3652! Anche se il procuratore generale presso la suprema corte di Cassazione, nel suo discorso d'inaugurazione del nuovo anno giudiziario, ha preferito non comunicarlo (come dargli torto…!): questo infatti è il numero dei procedimenti contro l'Italia radicati nel 1999 avanti alla corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo (nel 1998 erano 2978), la maggior parte dei quali, come emerge dalla relazione, riguarda le lamentele contro le lungaggini della giustizia nel nostro paese. Anche tutti gli altri procuratori generali presso le corti d'appello hanno ribadito come la nostra giustizia tartaruga non sia più sopportabile, in quanto una giustizia lenta non è mai, comunque, vera giustizia.

Ma quello che temevamo (vedasi su questa stessa rivista la rubrica Views: "La giustizia tartaruga oggi anche a Strasburgo") si sta concretizzando… Infatti il procuratore generale presso la Cassazione ha riconosciuto che la corte europea di Strasburgo, troppo ingolfata dal caso Italia, ha deciso di mettere il governo in mora, concedendogli tempo solo fino a giugno prossimo per porre rimedio ai nostri ritardi cronici, pena l'espulsione di fatto dall'Unione Europea!

Dalla relazione del procuratore generale è invece emerso l'elevato numero di condanne riportato dallo stato italiano: ben 401, costate complessivamente oltre 12 miliardi di lire di risarcimenti. Il procuratore La Torre ha definito la situazione una sconfitta avvilente, paragonabile a quella militare di Caporetto! Ed ha ammonito le autorità presenti, tra cui Ciampi, del rischio che incombe sulla nazione: se a seguito della diffida ricevuta l'Italia non porrà rimedio riuscendo a far svolgere i suoi processi interni in una durata ragionevole, verrà punita con la più grave delle sanzioni: la perdita del diritto di voto, "in pratica emarginata dal consesso europeo"!

Ma che cosa ha fatto il governo, tramite il signor ministro Diliberto, in quest'ultimo anno per cercare di migliorare la situazione, che, invece, dati alla mano, è peggiorata?

Ha attuato l'introduzione del Giudice Unico di primo grado, avendo constatato che il Giudice di Pace introdotto nel '96, ha dato, per la piccola giustizia civile, un risultato efficace, in quanto produce sentenze in circa 10 mesi, ragione per la quale si è deciso di attribuire ad esso anche competenza in materia penale. Qual è stato il ragionamento ispiratore di questo primo intervento? Che se un collegio di tribunale composto di tre giudici in primo grado sforna tot sentenze in un anno, se i soggetti che le producono vengono divisi, triplicheranno così le decisioni… Ed ecco quindi l'abolizione delle preture, con la conseguente assegnazione dei pretori, già giudici unici, all'ufficio del tribunale. Ma se è vero che si sono triplicati in questo modo i giudici che singolarmente decideranno, si troveranno però contemporaneamente tre aule, tre cancellieri, tre ausiliari disponibili per consentire lo svolgimento triplicato della loro attività processuale? I numeri infatti del personale giudiziario sono rimasti pressochè invariati, causando pertanto malumori per il maggior carico di lavoro. Inoltre, la riforma ha imposto di disegnare una nuova geografia della competenza territoriale dei vecchi tribunali, attizzando non poche lamentele da parte dell'avvocatura, per gli immancabili disagi a causa degli spostamenti che essa comporta, anche a seguito dell'abolizione delle zone prima coperte dalle preture.

L'altro intervento, di natura garantistica e costituzionale, è stato il Giusto Processo. Il nuovo art. 111 della nostra Carta fondamentale ora infatti inizialmente recita: "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata…" Questa riforma nell'ambito penale è già certo, anche perché è stata sostenuta dall'attuale minoranza, che porterà nuovi ritardi nella produzione di giustizia, salvo l'eliminazione dell'arretrato a causa d'intervenuta prescrizione dei reati… Nell'ambito civile, si rischia un'ulteriore paralisi, in quanto la riforma renderebbe di fatto incostituzionali tutti quegli speciali procedimenti che si potevano svolgere, almeno per la prima parte, inaudita altera parte, cioè in via sommaria senza contraddittorio: si tratta dei ricorsi per decreto d'ingiunzione di pagamento, per istruzione preventiva, per provvedimenti d'urgenza, per sequestro immediato, di quelle ipotesi in cui, a causa della manifesta prova sottoposta al giudice in prima battuta da parte del richiedente, sembrava eccessivo, oltre che dannoso, sentire anche la versione della controparte… che comunque aveva legalmente la chance dell'opposizione per instaurare un procedimento con ordinario contraddittorio. Cosa succederà ora? Dovranno essere instaurate solo nuove cause avanti al giudice unico per far pagare i debitori insolventi, per sequestrare presso di loro la merce non pagata ma ancora invenduta, per impedire all'inquilino, già manifestatamente moroso, di danneggiare la proprietà locata, eccetera, eccetera…?

Ahimè! Temiamo fortemente che, nonostante tutti i precedenti stoici sforzi compiuti per entrarci, per una trascurabile magagnetta chiamata giustizia, finiremo fuori dall'Europa…


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Popolare di Lodi, un coraggio da leone (e un modello federale)

di Paolo Brera

(Dicembre 1999)L'ultimo atto (per ora) è il lancio di un'offerta pubblica di acquisto su due piccoli istituti di credito, la Banca popolare di Ferrara e Rovigo e sulla Popolare di Forlì. In entrambi i casi l'acquirente mira a una comoda maggioranza, 65 per cento nel primo caso, 60 nel secondo. E in entrambi i casi l'acquirente è la Banca Popolare di Lodi, una banca la cui sede centrale è in uno dei capoluoghi di provincia più piccoli del Paese e che adesso mette un piede nel mitico Nordest. Le due offerte contemporanee potrebbero stupire. La Lodi è una banca popolare, cioè una cooperativa. Dunque dovrebbe essere piccola, ben radicata nel territorio, e piuttosto conservatrice nei metodi del business, giusto?

No, sbagliato, sbagliatissimo. Ben radicata sul territorio lo è, la Banca Popolare di Lodi – ma tutto il resto non si applica proprio. Non è piccola, per cominciare. Non lo è più. Il suo gruppo bancario, dopo le ultime acquisizioni (l'Iccri, Efibanca…), è ormai al nono posto in Italia. E non è nemmeno conservatrice. Anzi, la sua aggressività nel proporre il proprio modello di business le sta valendo l'attenzione dei media di tutto il Paese.

In sintesi, la Popolare di Lodi vuole proporsi come il centro di una rete federale di banche ed enti finanziari. Il modello assomiglia a quello di Banca Intesa, ma a differenza di quanto va facendo Bazoli la banca presieduta da Giovanni Benevento e guidata dall'amministratore delegato Gianpiero Fiorani si rivolge alle realtà piccole e medie, non ai behemoth del credito.

In nome di questa strategia la Lodi ha comprato molte banche e società finanziarie, e ha stipulato accordi strategici con un numero ancora maggiore. Con l'Iccri, l'Adamas, l'Efibanca, le Casse del Tirreno, l'accordo strategico con le Popolari di Puglia e Basilicata e l'esclusiva sulla Popolare di Crema, il lodigiani hanno racimolato 32,5 miliardi di euro di attivo e 510 filiali. L'obiettivo dichiarato è un milione di clienti, ciascuno con il suo bravo conto corrente pienamente operativo. Il livello attuale è 650.000.

Non è stata un'ascesa a buon mercato. La Popolare di Lodi sta sborsando cifre incredibili per comprare quelle che chiama le "società prodotto", come la Bpl Asset Management, l'Eurovita e l'Efibanca (l'ultima acquisizione della girandola lodigiana). E qualcuno, neppure poi sia particolarmente maligno, si domanda dove piglierà i soldi necessari. A quanto pare, infatti, il free capital della Popolare di Lodi sarebbe addirittura sotto lo zero.

"L'aumento di capitale che partirà nei primi mesi del 2000 sarà più che sufficiente a coprire le esigenze finanziarie delle recenti acquisizioni", spiega Gianpiero Fiorani, il giovane e dinamico amministratore delegato. L'operazione dovrà portare nelle casse della banca 770 milioni di euro e sarà rivolta sopra tutto agli investitori istituzionali, sebbene una tranche sia riservata ai risparmiatori privati.

In una lunga intervista a Milano Finanza Fiorani ha anche respinto le critiche all'efficienza della Popolare di Lodi, il cui Roe (rendimento del capitale di rischio) è appena il 4 per cento. Secondo Fiorani l'indice è distorto dal semplice fatto che le acquisizioni degli ultimi anni hanno dato luogo a ristrutturazioni che solo adesso cominciano a portare frutti. Ma il modello di gestione lodigiano è tutt'altro che inefficiente, ha detto Fiorani, prevedendo per il 2000 un roe del 9,3 per cento e per il 2002 addirittura del 16 per cento. Il tutto in un contesto "federale" che vuol essere attraente per tutta la galassia di piccole entità locali che ancora costituisce buona parte del sistema bancario italiano. Una scommessa decisamente insolita nel panorama del nostro Paese.


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Un 1999 di spleen per l'economia italiana…

di Paolo Brera

(Dicembre 1999) Per l'economia italiana, il 1999 sarà ricordato come una specie di lunghissimo momento della verità, iniziato nell'euforia e finito, almeno in Borsa, con l'euforia. In mezzo, però, c'è stato più che altro dello spleen. Entrato nel nuovo anno con l'entusiasmo generato dalla partenza in gran fanfara dell'euro, infatti, il nostro Paese si è trovato quasi subito a fare i conti con una situazione profondamente diversa da quella immaginata: molti nodi sono venuti al pettine e i pettinatori, va da sé, si sono rivelati svogliati come quasi sempre. Fuor di metafora, hanno ancora latitato le riforme microeconomiche delle quali l'Italia, similmente a buona parte dell'Europa ma in misura ancora più spinta, avrebbe avuto assoluto bisogno.

Sul piano psicologico, il deprezzamento dell'euro nei confronti di molte altre valute ha fatto sembrare inutili i grandi sacrifici compiuti nel quinquennio precedente per portare la lira nel sistema europeo. Ad aggravare le cose, la svalutazione dell'euro non aiuta l'export delle imprese italiane nella stessa misura in cui lo faceva negli anni precedenti la svalutazione della moneta nazionale, perché buona parte dei concorrenti si trovano ormai all'interno della stessa area monetaria.

Molti mercati di sbocco importanti per la nostra produzione – l'Asia, l'America Latina, durante gran parte dell'anno anche il Medio Oriente – nel corso del 1999 hanno sonnecchiato, o hanno comunque ridotto le importazioni. Nei riguardi degli scambi con Eurolandia, il problema è che le imprese italiane hanno perso competitività: costo del lavoro e inflazione aumentano infatti più rapidamente che in Francia o in Germania, sia pure di poco.

Il commercio estero ha dunque visto ridursi in misura sensibile l'avanzo: nel periodo gennaio-ottobre (per i mesi successivi non ci sono ancora i dati) il saldo è stato pari a 23.557 miliardi di lire, con una diminuzione di 18.600 miliardi rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Nella bilancia dei pagamenti si mantiene positiva quella corrente, ma il saldo dei movimenti di capitali si è rovesciato di segno a causa del minore interesse degli investitori esteri per l'Italia e della tendenza del risparmio italiano a prendere le vie del vasto mondo.

L'inflazione non è oggi un problema sociale (un ritmo annuo del 2,1 per cento fa ridere di gusto chiunque abbia memoria dei decenni passati): ma è un problema economico, perché riduce la competitività delle imprese italiane verso gli europartner. A peggiorare il problema provvedono le diseconomie esterne di cui risentono le imprese, vittime di un sistema Italia la cui modernizzazione si fa aspettare – anche perché lo Stato, dovendo rientrare dal deficit pubblico, non può investire in infrastrutture.

L'inflazione si è associata nel 1999 a una bassa domanda interna per consumi, mentrre gli investimenti si sono mantenuti relativamente vivaci. Le famiglie italiane sono state molto attente alle spese perché le tasse hanno falcidiato il loro reddito disponibile e perché si sentivano insicure per l'avvenire. La riforma della spesa pensionistica è stata molto timida, più un ritocco che una vera riforma: ma se è risultata insufficiente per risolvere i problemi a medio-lungo termine, ce n'è stato comunque abbastanza per spaventare la gente.

Il prelievo fiscale è di fatto cresciuto ancora, nonostante singole iniziative di alleggerimento e semplificazione da parte del governo. La cosa non ha mancato di riflettersi sui conti pubblici. Se in primavera il ministro Giuliano Amato era andato a Bruxelles a impetrare una revisione dal 2,0 al 2,4 per cento dell'obiettivo di deficit 1999, revisione a onor del vero più che giustificata dalla crescita economica più bassa del previsto, i dati sulle entrate pubbliche dei mesi successivi hanno mostrato che la revisione era superflua: il disavanzo dell'anno sarà il 2 per cento, non di più.

L'economia però ha segnato il passo, e secondo la Confindustria chiuderà il 1999 con una crescita dell'1,2 per cento. Una ripresa oltre tutto fragile, visto che neppure gli ultimissimi dati sono univoci nell'indicare un recupero produttivo.

Il tasso di risparmio delle famiglie italiane si è ancora ridotto, e – sul versante degli impieghi – la Borsa ha oscillato nei due sensi del 10-15 per cento, per poi concludere l'anno con i fuochi d'artificio di una crescita quasi del 20 per cento. Grandi mutamenti si sono in ogni modo verificati fra le società quotate: l'ultimo anno del millennio fa registrare una delle più grandi Opa ostili della storia mondiale, quella di Olivetti su Telecom Italia, e la fusione di non minore importanza fra le Assicurazioni Generali e l'Ina. L'Enel e la società Autostrade sono state privatizzate, ed è proseguita l'integrazione delle banche in alcuni grandi gruppi come SanPaolo-Imi, Banca Intesa e Unicredito.

Come risultato di alcuni provvedimenti in fatto di assunzioni e sostegno all'occupazione, il numero dei senza lavoro è lievemente diminuito. Restano comunque largamente irrisolti i tre problemi centrali del lavoro italiano: l'alta percentuale dei disoccupati di lungo periodo, l'elevata disoccupazione giovanile, e la concentrazione territoriale del problema nel Mezzogiorno.

E tuttavia, proprio nel Sud del Paese sono emersi segni evidenti di un risveglio dello spirito imprenditoriale, mentre sono emerse preoccupazioni per l'economia del Nordest. Le cifre sulla creazione di nuove aziende nelle regioni del Sud mostrano un particolare fervore, in particolare lungo la dorsale adriatica. E se a livello di piccola impresa i giovani meridionali sembrano oggi piuttosto attivi, alcune grandi aziende del Sud hanno saputo accrescere fatturato ed esportazione: non solo la Fiat di Melfi, ma anche un'impresa come la Natuzzi e altre. Dal meridione, e precisamente dall'estrema propaggine adriatica, viene anche l'esperienza di assoluta avanguardia della Banca del Salento, oggi in procinto di essere acquisita dal Monte dei Paschi: una delle banche che hanno svecchiato l'offerta di servizi finanziari. Se tutto ciò preluda a un forte slancio dell'economia nelle aree fino ad oggi depresse dell'Italia è ancora troppo presto per dire. Ma quel che è certo è che l'immobilismo del Mezzogiorno si è finalmente rotto.


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…seguito da un 2000 un po' migliore

di Paolo Brera

(Dicembre 1999) Per l'economia italiana, A vele spiegate e con favor di vento: così l'economia italiana attraverserà il 2000. Purtroppo, solo nelle comunicazioni del governo di Roma – e se queste fossero una canzonetta, l'ottimismo a tutti i costi vi farebbe le veci del ritornello, con altrettanta efficacia sull'effettivo andamento delle cose. Gli osservatori indipendenti e i centri di ricerca collegati all'economia prevedono invece un anno assai meno flamboyant. Certo, anche da noi l'economia ha ripreso a marciare, ma in maniera più lenta rispetto al resto del mondo. Le previsioni del Centro Studi Confindustria indicano per il 2000 una crescita del pil al 2,2 per cento, meno della media mondiale (+3,5%) e di quella della zona euro (+2,8%). Nei due anni successivi, secondo Prometeia, l'incremento potrebbe arrivare al 2,5 per cento, avvicinandosi a quello previsto per l'Uem. Ciò significa che se proseguiranno le attuali tendenze l'Italia accumulerà ulteriore ritardo rispetto ai partner europei.

Il consensus degli economisti interpellati dall'Economist è più ottimista e assegna all'Italia un tasso di crescita del pil del 2,3 per cento e un'inflazione all'1,9. Anche questa previsione comporta un asptto sicuramente negativo, il deterioramento della competitività degli esportatori italiani nei confronti di quelli europei, deterioramento che dovrebbe situarsi intorno ad un punto percentuale più o meno l'eventuale differenziale nella crescita della produttività.

Non c'è dubbio, comunque, che la ripresa mondiale trainerà anche quella italiana. Un mercato di sbocco importante per gli esportatori, l'Asia, è previsto proseguire nella ripresa, l'Europa sta già crescendo rapidamente, gli Stati Uniti sembrano non conoscere sosta. L'aspettativa è che le esportazioni italiane riprendano a crescere a ritmo sostenuto, vicino a quello previsto per il commercio mondiale (tra il 5 e il 6 per cento).

Piazza degli Affari, grazie alla ripresa d'interesse degli investitori internazionali, che la ritengono sottopesata fra le Borse del mondo, entra nel 2000 in bellezza e dovrebbe mantenere lo slancio per buona parte dell'anno. Nel corso del 2000 sarà attuata la privatizzazione della seconda tranche di azioni Enel e anche degli Aeroporti di Roma; in giugno dovrebbe essere avviata la liquidazione dell'Iri. È anche praticamente certo che l'anno venturo assisteremo ad altre appassionanti battaglie azionarie, combattute anche da società estere desiderose di impiantarsi in Italia. Molte sono infatti le situazioni ancora da definire, a cominciare dal gruppo Compart il cui assetto non può certo essere considerato quello conclusivo.

Nessuna schiarita, o quasi, dal fronte del fisco e della mobilità del lavoro. Il nuovo governo D'Alema è la copia in carta carbone del precedente, l'incredibile ministro Visco è ancora al suo posto. Le promesse sono promesse e fair play vorrebbe che si aspettasse un certo tempo prima di dichiarare che non saranno mantenute, ma questo è un articolo di previsione, il Paese previdendo è l'Italia, e il mantenimento delle promesse, come dice Marcantonio dell'ambizione di Cesare, "dovrebbe essere fatto d'una stoffa più resistente". In effetti, non ci sono indizi che il governo possa, o voglia, mettere mano ai provvedimenti che soli potrebbero davvero migliorare la situazione. Coeterum censeo… ma no, lasciamo stare, per questa volta, e Buon Nuovo Millennio a tutti! In fondo, all'inizio di un millennio si può anche adottare una prospettiva secolare, e nel 3000 le cose sarano sicuramente ben diverse rispetto al 2000. Avremo tempo per rimediare a tutto. E se non noi, i nostri pronipoti.


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Il boomerang di Visco

di Nicola Sardi

(dicembre 1999) Udite, udite! Una disposizione voluta da Visco nel cosiddetto collegato fiscale alla Legge Finanziaria del 1999, dopo soli pochi mesi dalla sua entrata in vigore, è già stata giudicata unanimemente illegittima dalla giurisprudenza, in quanto in contrasto con la normativa comunitaria!

Questo è il risultato prodotto dalla linea dura pervicacemente messa in atto dal ministero delle Finanze. Ad aprire le ostilità è stata la circolare n. 32/E del 12 febbraio 1999, con la quale si impartivano istruzioni alle avvocature distrettuali dello Stato che patrocinano l'Amministrazione contro le società che avevano promosso cause per il rimborso della tassa di concessione governativa per l'iscrizione nel registro delle imprese. Una linea in attuazione di un piano che invece aveva obiettivi di realizzo di un'autentica beffa a danno delle società che attendono dal 1993 il rimborso della tassa di concessione governativa dichiarata illegittima dalla Corte di giustizia europea, e che ora si sta rivelando un vero e proprio boomerang nelle mani del ministro che l'aveva lanciato! Infatti, questo primo risultato produrrà, salvo nuovi interventi tampone in occasione della Finanziaria 2000, la conseguenza di un aumento spasmodico del contenzioso sul rimborso della tassa e ulteriori ingenti oneri per l'erario, cioè esattamente l'opposto di quello che si era prefisso il signor ministro Visco, varando la norma in questione!

Ricostruiamo la vicenda, anche con il riassunto delle due puntate precedenti già pubblicate (rubrica Esperti, "Concessione governativa, la tassa sarà rimborsata..." e "Il balzello, il trucco e la beffa..").

Prima puntata -Visco, stanco di sentirsi condannare per il suo ministero dai tribunali italiani al rimborso alle società dell'illegittima tassa di concessione governativa, con l'aggiunta di gravosi interessi e spese, fa introdurre l'art. 11 della Legge n. 448/98, in vigore dal '99 quale collegato fiscale alla Finanziaria, con previsione di un accantonamento di 2.500 miliardi per rimborsarla. La norma sancisce il diritto per le società che l'hanno richiesto ad avere la restituzione delle somme in via automatizzata, cioè direttamente dall'ufficio con vaglia o bonifico. Il trucco iniziale è che il signor ministro si concede un cospicuo sconto, facendo prevedere la sopravvivenza della tassa, con decurtazioni forfetarie sul capitale da rimborsare, a seconda della forma giuridica di società e, soprattutto, un taglio agli interessi dovuti in base alla legge sui rimborsi fiscali, imponendo il tasso legale in vigore dal 1999: 2,5% annuo!

In concreto, ad esempio, una S.r.l. che deve ricevere il rimborso di 5 annualità della tassa (anni 1988 - 1992) pagate per complessive L. 17.500.000, deve avere una decurtazione pari a L. 2.000.000 (quattrocentomila per ogni anno) e un'ulteriore decurtazione agli interessi maturati, spettanti per circa L. 8.500.000, pari ad altre L. 5.500.000. La nostra S.r.l., pertanto, in base alla buona novella di Visco introdotta insieme al rimborso del 60% dell'Eurotassa, si vedrà complessivamente rimborsare dagli uffici L. 18.500.000, anziché L. 25.500.000, sempre che abbia, ovviamente, presentato regolari istanze di rimborso!

Seconda puntata - Viene diramata la prima circolare ministeriale applicativa della legge, indirizzata agli uffici. Ecco che si apprende che gli uffici delle avvocature distrettuali dello Stato dovranno invocare nel corso delle cause pendenti, l'intervento della nuova legge, chiedendone l'applicazione retroattiva! Cioè, ecco la beffa: anche quel minor numero di società che hanno fatto causa e non hanno ancora ottenuto il rimborso in forza di una sentenza passata in giudicato, dovranno subire gli effetti della nuova legge!

Finito il riassunto delle puntate precedenti, è ben comprensibile come ora possa insorgere una grande soddisfazione tra i contribuenti interessati al rimborso, dall'apprendere che i giudici italiani, investiti da questa nuova pretesa del ministero, l'abbiano respinta al mittente... I giudici, per lo più, hanno autonomamente disapplicato la norma, in quanto in contrasto con la normativa comunitaria, tutti sulla questione degli interessi sul capitale, qualcuno, tra cui però la suprema Corte di Cassazione, anche sul punto delle decurtazioni forfetarie. E c'è chi, più prudentemente, ha anche rimesso la norma al giudizio della Consulta, in quanto sospettata d'incostituzionalità.

Abbiamo appreso, a settembre, che è uscita anche la seconda circolare, con la quale il ministero ha annunciato la predisposizione per l'invio, a partire da novembre, dei primi rimborsi automatizzati... Che le società interessate, a questo punto della storia, potranno intanto incassare a titolo d'acconto e poi ricorrere al tribunale, per ottenere la disapplicazione dell'art. 11 e la condanna del ministero al pagamento della maggior somma che gli spetta.

La diabolica macchinazione giuridica del signor ministro Visco si è trasformata in un boomerang che gli tornerà sul capo dal 2000, portandogli in dote un mare di ulteriori cause e di esborsi conseguenti. A meno che non voglia porgervi rimedio con il prossimo collegato fiscale. Si accettano scommesse.


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Mercato azionario, il Web dal boom al crash

di Paolo Brera

(Novembre 1999) Balzi all'insù del 30, del 60, del 700 per cento in un solo giorno. Seguiti a pochi giorni di distanza da cadute del 20, del 30, del 50 per cento. Benvenuti alla più grande "bolla" che abbia mai reso frenetica Piazza degli Affari: quella dei titoli Internet, o presunti tali. Il comportamento del mercato, in questo caso, ha ragioni che la ragione proprio non conosce. Ma poiché l'Italia non è certo sola in questa webbomania, i motivi non devono risiedere nel carattere nazionale ma altrove.

Exploit come questi si debbono sempre pagare, e non può meravigliare la caduta che negli ultimi giorni hanno subito tutti i titoli tecnologici (chi troppo in alto sal…). Come in America, dietro l'esuberanza folle dei titoli connessi alla Rete delle reti ci sono solo smodate e poco realistiche speranze, non previsioni equilibrate. Nemmeno Yahoo! o Amazon.com potranno mai moltiplicare per mille o diecimila il loro fatturato, però sarebbero necessari proprio incrementi del genere, o anche maggiori, per giustificare gli attuali prezzi sulla base dei rendimenti delle attività alternative. Gli unici due argomenti razionali che si possono proporre per giustificare la follia sono i seguenti. Primo: la maggior parte degli investitori in titoli Internet sono giovani, che in quanto tali si possono permettere di aspettare parecchio prima di vedere i frutti dell'investimento. Unico rischio, quello che si diceva dei piantatori di palme: "Chi semina datteri non mangia datteri", perché ci vuole un tempo più lungo di una vita umana prima che maturino. Secondo argomento: la maggior parte degli acquirenti di titoli tecnologici opera via Web, comprando e vendendo con un semplice scatto di mouse, e quindi conduce una politica di investimento alla Lara Croft. L'essenziale è il tempismo nell'entrare e nell'uscire, e pirla è il cassettista. Solo che questo non è un atteggiamento da autentici investitori, è un atteggiamento da giocatori d'azzardo.

Se in America va maluccio, in Italia è anche peggio. "Tiscali? Speriamo che nessuno vada a guardare che cosa c'è dentro la scatola nera del suo business", dice un esperto di informatica che la conosce e che ne è fornitore (di qui l'anonimato). È certamente troppo pessimista, perché, da buon tecnico, sopravvaluta l'aspetto hardware e software e non pensa all'eccezionale goodwill che l'impresa sarda si è costruita, che ha pure un valore. Ma è anche vero che la società guidata da Renato Soru è oggi la più solida della pattuglia delle "tecnologiche" italiane, e anche la più solidamente impiantata in Internet.

Altre lo sono molto di meno, magari senza colpa alcuna. Il patron di Finmatica, Pierluigi Crudele, è arrivato al punto di avvisare il mercato che la sua società crede sì nella Rete, ma per ora al riguardo ha solo qualche progetto e il suo core business non ha niente a che fare con Internet. Ai giornalisti che gli chiedevano quanto durerà l'altalena di Finmatica, Crudele ha risposto: "Fino a quando la Borsa vivrà di sensazioni, piuttosto che del rapporto tra azienda e mercato". Inaudito.

In tutti i sensi. Quasi nessuno ha prestato attenzione all'autorevole avvertimento, anche se il titolo ha cominciato a scendere del 20 per cento al giorno perché tutti si sono buttati a pesce sulla possibilità di monetizzare le plusvalenze. Questa però non è una mentalità da operatori evoluti, ma una mentalità da gioco del Lotto o da gente che crede nelle Fate. E almeno fossero quelle della pubblicità dell'Enel! la cui azione è stata sopravvalutata in fase di collocamento ma di non molto, è scesa nei giorni successivi ma non di molto, e si è poi ripresa ma non di molto. Tutto il contrario, insomma, di queste stelle filanti di titoli Internet che, è proprio il caso di dirlo, nelle ultime settimane hanno irretito tanti italiani.


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Vedrete, tornerà Cartella Pazza

di Nicola Sardi

(Novembre 1999) A fine giugno, con la legge n. 205/99 il Signor Ministro Visco è riuscito a incassare dal Parlamento l'approvazione della legge delega, che autorizzerà il Governo a emettere nel termine di sei mesi un decreto legislativo di depenalizzazione - tra gli altri - dei reati fiscali, e a dettare nel termine di otto mesi, una nuova normativa dei reati in materia tributaria. La Commissione istituita allo scopo di predisporre le proposte di schemi legislativi vede, tra i suoi componenti di spicco, il Dott. Bruno Tinti, Procuratore Aggiunto presso il Tribunale di Torino, cioè magistrato di quella stessa Procura della quale hanno fatto parte, sia il Dott. Caselli, sia l'onorevole Violante, attuale Presidente della Camera dei Deputati.

L'esperto tributario si domanda se sia possibile concedere una depenalizzazione che cancellerà i reati di natura tributaria, senza contestualmente consentire anche una qualche forma di perdono per quelle sanzioni amministrative connesse al compimento di quegli stessi fatti criminosi.

La risposta è certamente negativa e la sua motivazione può essere validamente mutuata dal compianto Silvio Moroni, quando, con gran senso di praticità, per casi simili affermava che "il minore sta dentro al maggiore" …

Il Ministero delle Finanze, ha recentemente affermato che, con l'obiettivo di attuare la Riforma Visco, si sta lavorando alacremente per eliminare il peso dell'arretrato, per evitare prescrizioni e al fine di poter attuare appieno i risultati del fisco telematico del terzo millennio. Gli Uffici, cioè, anche per evitare prescrizioni, dovranno tassativamente completare il controllo delle dichiarazioni fiscali presentate per gli anni dal 1993 al 1997, entro il 2000. Il Ministero, nonostante l'improbo sforzo imposto al suo personale, manifesta sicuro ottimismo, così minacciando di fatto i contribuenti interessati di un'invasione, di qui a pochi mesi, di milioni di accertamenti e di cartelle esattoriali!

L'esperto tributario ancora si chiede se sia possibile realizzare una simile ardua impresa, senza incorrere in un'altra (ben maggiormente lunga e dolorosa) stagione di provvedimenti pazzi, come è già accaduto per gli ultimi due anni d'imposta accertati.

Ancora la risposta è certamente negativa e la sua motivazione è data dalla consapevolezza che i mezzi di controllo sono sempre gli stessi, il personale a ciò deputato non è aumentato e, per di più, gli viene chiesto di attuare quest'impresa proprio nel periodo in cui è in agitazione a livello sindacale contro il Ministero stesso, a causa della riforma dell'amministrazione finanziaria voluta da quest'anno dal signor Ministro Visco…

Eppure, nonostante la certezza delle due risposte precedenti, si continua a non parlare di quello che sarebbe l'ineluttabile panacea di tutti i mali fiscali: un bel condono tombale, simile all'ultimo noto come il 413/91, il numero, cioè, della Legge che lo introdusse in accompagnamento alla Finanziaria per il 1992.

L'esperto tributario, infine, si domanda se sia normale non parlarne stante l'attuale momento politico attraversato. Direbbe, con espressione cara al giornalista Giampiero Mughini: Suvvìa! La risposta è, questa volta, certamente sì! E questo silenzio è proprio la traccia più marcata della volontà di volerlo introdurre a corredo dell'inizio dell'anno del Giubileo… quasi che fosse una sorta d'indulgenza plenaria!


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Sulla privatizzazione di Autostrade pesa l'Enel

di Paolo Brera

(Novembre 1999) La data, dopo l'approvazione del prospetto da parte della Consob, è stata fissata in lunedì 29 novembre. Quel giorno parte quella che in Italia sarà l'ultima privatizzazione del millennio, quella della Società Autostrade, per concludersi il 3 dicembre. Tenuto conto delle quote già cedute, lo Stato italiano verrà a incassare in tutto 7,75 miliardi di euro. Se tutto andrà bene.

Già, se tutto andrà bene. Sul mercato viene offerto il 56,6 per cento della società, a un mese esatto dal collocamento dell'Enel: un collocamento infausto, che a causa della cupidigia dello Stato ha generato problemi per tutta la Borsa italiana, e per il processo di privatizzazione in particolare. L'azione Enel, infatti, si muove da allora intorno al prezzo iniziale, senza riuscire a decollare: segno certo che il prezzo a suo tempo richiesto è stato troppo alto per le condizioni del mercato. Ora la privatizzazione di Autostrade dovrà incaricarsi di mostrare se i risparmiatori, scottati una volta dall'elettricità, risponderanno lo stesso al richiamo dell'asfalto.

Il collocamento avviene dopo che il 30 per cento di Autostrade è stato ceduto dal proprietario, l'Iri, a un nucleo duro guidato da Edizione Holding (gruppo Benetton) e formata inoltre dalla Fondazione Crt, dalla spagnola Autopistas, dall'Ina, da Unicredito e da Brisa, il gestore autostradale portoghese. La cordata ha assunto verso l'Iri una serie di impegni: non cedere neppure un'azione del nucleo duro per almeno tre anni, garantire la continuità produttiva e salvaguardare l'occupazione e il mix di aree di attività. Questo può essere possibile solo se Autostrade saprà imboccare una profonda diversificazione. In parte, lo sta già facendo, sopra tutto nelle telecomunicazioni: come è stato spiegato nel roadshow che ha preceduto il collocamento, entro cinque anni gli introiti tlc dovranno costituire il 20 per cento dei ricavi totali del gruppo.

Oltre all'investimento in Blu, quarto operatore di telefonia mobile, Autostrade sta oggi parlando con un gruppo internazionale per valorizzare la rete in fibra ottica (3.300 chilometri) che corre a lato del manto stradale. Nel roadshow l'amministratore delegato Pierluigi Ceseri ha fatto i nomi di Swisscom, Tiscali ed Mci, citando anche non meglio identificati "altri".

Per quanto riguarda Blu, di cui Autostrade controlla il 32 per cento attraverso la Sitech, il servizio telefonico partirà nei primi mesi del 2000, e l'obiettivo, come ha detto il presidente Giancarlo Elia Valori, è di conquistare entro il 2005 una quota di mercato del 13 per cento. Riguardo alla società spagnola Telefónica, ancora Ceseri ha precisato che sono in corso rapporti di tipo operativo, mentre ipotesi di più ampio respiro sono state fatte per la joint venture con la romana Acea, che tuttavia potrebbe sfociare, più che in una modifica dell'assetto proprietario, in una convergenza operativa.

Il presidente della società, Giancarlo Elia Valori, ha dichiarato di non temere "l'effetto Enel" sulla completa privatizzazione della società. "Gli azionisti forti di Autostrade sono noti e le regole che devono rispettare sono chiare", ha detto Valori. A differenza di quanto è accaduto per la prima tranche dell'Enel, l'offerta globale di azioni non potrà essere aumentata, in quanto con questa operazione l'Iri cede già tutta quanta la propria partecipazione. Se dunque le richieste dovessero superare significativamente l'offerta, si dovranno ripartire le azioni tra Opv e investitori istituzionali. L'impegno è di riservare almeno il 40 per cento dell'offerta all'Opv: "È tradizione", ha detto Valori nel roadshow, "avere molta attenzione per i risparmiatori". Bisognerà vedere se questa attenzione sarà o meno ricambiata dalla vasta platea di investitori i cui risparmi si vogliono di nuovo mobilitare.


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Sulle tracce… di un condono

di Nicola Sardi

(Novembre 1999) A fine giugno, con la legge n. 205/99 il Signor Ministro Visco è riuscito a incassare dal Parlamento l'approvazione della legge delega, che autorizzerà il Governo a emettere nel termine di sei mesi un decreto legislativo di depenalizzazione - tra gli altri - dei reati fiscali, e a dettare nel termine di otto mesi, una nuova normativa dei reati in materia tributaria. La Commissione istituita allo scopo di predisporre le proposte di schemi legislativi vede, tra i suoi componenti di spicco, il Dott. Bruno Tinti, Procuratore Aggiunto presso il Tribunale di Torino, cioè magistrato di quella stessa Procura della quale hanno fatto parte, sia il Dott. Caselli, sia l'onorevole Violante, attuale Presidente della Camera dei Deputati.

L'esperto tributario si domanda se sia possibile concedere una depenalizzazione che cancellerà i reati di natura tributaria, senza contestualmente consentire anche una qualche forma di perdono per quelle sanzioni amministrative connesse al compimento di quegli stessi fatti criminosi.

La risposta è certamente negativa e la sua motivazione può essere validamente mutuata dal compianto Silvio Moroni, quando, con gran senso di praticità, per casi simili affermava che "il minore sta dentro al maggiore"

Il Ministero delle Finanze, ha recentemente affermato che, con l'obiettivo di attuare la Riforma Visco, si sta lavorando alacremente per eliminare il peso dell'arretrato, per evitare prescrizioni e al fine di poter attuare appieno i risultati del fisco telematico del terzo millennio. Gli Uffici, cioè, anche per evitare prescrizioni, dovranno tassativamente completare il controllo delle dichiarazioni fiscali presentate per gli anni dal 1993 al 1997, entro il 2000. Il Ministero, nonostante l'improbo sforzo imposto al suo personale, manifesta sicuro ottimismo, così minacciando di fatto i contribuenti interessati di un'invasione, di qui a pochi mesi, di milioni di accertamenti e di cartelle esattoriali!

L'esperto tributario ancora si chiede se sia possibile realizzare una simile ardua impresa, senza incorrere in un'altra (ben maggiormente lunga e dolorosa) stagione di provvedimenti pazzi, come è già accaduto per gli ultimi due anni d'imposta accertati.

Ancora la risposta è certamente negativa e la sua motivazione è data dalla consapevolezza che i mezzi di controllo sono sempre gli stessi, il personale a ciò deputato non è aumentato e, per di più, gli viene chiesto di attuare quest'impresa proprio nel periodo in cui è in agitazione a livello sindacale contro il Ministero stesso, a causa della riforma dell'amministrazione finanziaria voluta da quest'anno dal signor Ministro Visco…

Eppure, nonostante la certezza delle due risposte precedenti, si continua a non parlare di quello che sarebbe l'ineluttabile panacea di tutti i mali fiscali: un bel condono tombale, simile all'ultimo noto come il 413/91, il numero, cioè, della Legge che lo introdusse in accompagnamento alla Finanziaria per il 1992.

L'esperto tributario, infine, si domanda se sia normale non parlarne stante l'attuale momento politico attraversato. Direbbe, con espressione cara al giornalista Giampiero Mughini: Suvvìa! La risposta è, questa volta, certamente sì! E questo silenzio è proprio la traccia più marcata della volontà di volerlo introdurre a corredo dell'inizio dell'anno del Giubileo… quasi che fosse una sorta d'indulgenza plenaria!


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Tecnost-Telecom, Colaninno riconosce la sconfitta. Siamo sconfitti anche noi

di Paolo Brera

(Novembre 1999) Ha dovuto sputarlo, infine, Roberto Colaninno, quel boccone indigesto che gli investitori istituzionali gli avevano cacciato giù per il gorgozzule fra settembre e ottobre. "Il Consiglio di amministrazione di Tecnost ha riesaminato il piano di riassetto societario del Gruppo proposto lo scorso mese di settembre e ha deciso di non procedere con tale operazione." Poche scarne parole sono dunque bastate al vertice per liquidare il progetto di scorporo e scambio degli asset di Telecom, lo stesso che nelle scorse settimane aveva provocato una terribile alzata di scudi anti-Olivetti sui mercati finanziari. Piazza degli Affari ha gradito. E ancor più le è piaciuta la notizia della quotazione separata di Tin.it, il braccio Web del gruppo di telecomunicazioni. Il prezzo di tutti i titoli interessati (Olivetti, Tecnost, Telecom Italia e Tim) è balzato all'insù con scambi molto vivaci.

Nonostante questo raddolcimento finale, resta il fatto che per Colaninno l'intera vicenda Tecnost-Telecom è un'amara sconfitta, non una zuccherina vittoria. Il presidente e amministratore delegato di una delle maggiori società italiane si è preso una bella bacchettata sulle dita da parte degli investitori istituzionali, che hanno ottenuto una perizia indipendente per definire un concambio diverso fra le azioni Tecnost, Telecom e Tim, e un'altra dai periti indipendenti, che hanno tirato fuori un prezzo "equo" (equo per gli azionisti di minoranza) molto più alto di quello che era stato proposto all'inizio. La credibilità del megamanager mantovano è ovviamente diminuita, e Colaninno dovrà ora sudare parecchio per recuperarla di fronte alla platea degli investitori. "Il piano industriale di Telecom Italia non verrà modificato", ha dichiarato ancora Colaninno, ma è solo una foglia di fico per celare il pudendissimo rovescio.

Un rovescio, beninteso, che si è cercato lui stesso, fidando troppo nel suo prestigio. Aggiungiamo pure che comportandosi così Colaninno ha danneggiato anche l'intero mercato azionario italiano, del quale si è ricominciato a dire che non protegge gli azionisti di minoranza (il che, dopo la perizia Telecom, è ufficiale). Che farà adesso Colaninno per rilanciare l'attività industriale del suo gruppo, e soprattutto per coprire i 30.000 miliardi di debiti creatisi con l'Opa?

A parte la quotazione di Tin.it, che ha fatto scorrere fiumi di entusiastico inchiostro presso i webbolatri che abbondano fra i commentatori finanziari, ci sono solo ipotesi. Si era parlato di un aumento di capitale Olivetti (lo studio in proposito, saecondo il Sole 24 Ore, sarebbe già stato realizzato da note banche d'affari), ma il Consiglio non ne ha nemmeno parlato – anche perché è dura far passare un aumento quando serve non a finanziare un'espansione ma solo a trarsi fuori dai puffi. Certo, l'aumento potrebbe essere reso attraente emettendo le nuove azioni a condizioni di ultra-favore, però gli azionisti di maggioranza non sono dei cresi e non hanno tutti i soldi che ci vorrebbero, mentre quelli di minoranza potrebbero ben lamentare la continua e ossessiva richiesta di nuovi mezzi. Telecom Italia, a peggiorare il tutto, sta andando qualche po' meno bene di prima: la concorrenza ormai si fa sentire e nei primi nove mesi dell'anno l'utile netto è sceso del 16,3 per cento. Far scaturire valore dalla riorganizzazione di Telecom, come ha detto il Cda Tecnost, è sicuramente possibile. Ma sarà possibile anche arrivare in tempo per evitare tutte le procelle che si stanno ormai addensando sulla Olivetti? Oggi questa, e non altra, è la scommessa di Colaninno: una questione di quando, non di come.


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La giustizia tartaruga oggi anche a Strasburgo

di Nicola Sardi

 

(Novembre 1999) Quando si parla dei mali della giustizia italiana, ci si riferisce soprattutto alla sua cronica lentezza, e, conseguentemente, si finisce col cercarvi un rimedio quando il ritardo tra la data d'inizio di un processo e quella in cui interviene una prima sentenza che lo definisce è tale da provocare un danno risarcibile a favore delle parti processuali coinvolte. Il rimedio, in realtà, esiste fin dal 1955, quando cioè l'Italia ha ratificato con una propria legge la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo del 1950, sottoponendosi così al giudizio dell'omonima Corte, avente sede a Strasburgo.

Sta accadendo, però, che a causa dell'elevatissimo numero di ricorsi proposti di recente contro il Governo italiano, anche i tempi del procedimento avanti ai giudici di Strasburgo si stanno dilatando al punto di doversi chiedere se anche la giustizia europea non stia diventando, in conseguenza del caso Italia, una tartaruga meritevole di analoga condanna…

Fino alla fine del 1990 i ricorsi proposti alla Corte europea contro l'Italia erano solo qualche decina, poi sono di anno in anno enormemente cresciuti, fino ad arrivare ai 1.920 del '96 (anno dell'introduzione del nuovo processo civile), ai 2.066 del '97 e ai 2.978 del '98! Aspettiamo di conoscere i dati ufficiali del '99, ma è certo che il numero è ancora lievitato, tanto da cumularsi ad quell'arretrato già notevole che aveva consigliato alla Cedu di ristrutturarsi nel suo interno, sopprimendo la vecchia Commissione e riorganizzandosi in quattro Sezioni, con decorrenza dal 1° novembre 1998.

Evidentemente, il gran numero di condanne nei confronti del Governo non sono comunque bastate, visto che la stessa Corte Europea in una sua recente sentenza ha riconosciuto che "in Italia la lentezza eccessiva della giustizia rappresenta un pericolo importante, segnatamente per lo Stato di diritto".

È anche per questa ragione che recentemente un Comitato per la giustizia del lavoro di Roma ha deciso di presentare un esposto-denuncia a Bruxelles indirizzato a Prodi, nella sua qualità di presidente della Commissione europea, segnalando come la gravità dei ritardi dei processi, particolarmente nel diritto del lavoro, rito peraltro preso a modello per migliorare anche il procedimento ordinario civile, abbia raggiunto ormai disfunzioni allarmanti: durata media nazionale di cinque anni tra primo grado e appello, quando la legge prevede otto mesi! E si pensi che a Roma e in altre città nel meridione tra la data del deposito del ricorso e la data di fissazione della prima udienza da parte del giudice, si è arrivati ad aspettare cinque anni, quando la legge prescrive che siano al massimo sessanta giorni.

Il problema ora sembra però trasferirsi anche a Strasburgo, in quanto le statistiche dicono che la Corte è impegnata per quasi metà del suo tempo a trattare i casi accumulati contro l'Italia… E così anche i tempi, prima certamente ragionevoli di Strasburgo, stanno diventando irragionevoli, in quanto essi stessi rischiano di parificarsi a quelli per i quali i giudici europei procedono a condannare l'Italia a risarcire il danno provocato ad un suo cittadino in relazione alla violazione dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, che sancisce per l'appunto il principio della durata ragionevole del processo.

I tempi con i quali la Corte giudica dunque sono in procinto di divenire i medesimi di quelli in relazione ai quali, la Corte secondo l'orientamento più recente, condanna l'Italia per non aver garantito lo svolgimento di un processo civile o penale entro un termine ragionevole…

Il procedimento a Strasburgo durava infatti in media, per i casi più ricorrenti che sono quelli di cui trattiamo, circa due anni e interveniva la condanna dello Stato italiano quando il processo interno era durato oltre i tre anni… I giudici di Strasburgo finiranno per auto-condannarsi? Oppure chi sarà chiamato a giudicare sui ritardi della Corte Europea?


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Le mille vie dello Stato per rendersi insolvente

di Nicola Sardi

 

(Novembre 1999) Lo sforzo effettuato dall'Italia per entrare nell'Unione Europea ha ancor più rimarcato lo scollamento già esistente tra quello che è definito come lo Stato di diritto e quello che è chiamato lo Stato di fatto. Meno tecnicamente parlando, cioè, si è venuto a creare un ulteriore divario tra lo Stato formale e quello reale, causando ormai un vero e proprio strappo che temo sia difficile ricucire, in quanto il cercare di riottenere un auspicabile riavvicinamento tra i due Stati passerebbe inevitabilmente attraverso la dichiarazione dello stato d'insolvenza dell'Italia nei confronti dei suoi cittadini, condizione che, oltre che a escluderci dall'Europa, ci metterebbe a livello di un paese del Terzo Mondo!

L'Italia fa sì attualmente le leggi che la normativa comunitaria le chiede, ma non ha le risorse finanziarie per attuarle quando queste riconoscono un diritto del cittadino nei suoi confronti. Il cittadino italiano fino a quando non si viene a trovare nella situazione di creditore del suo Stato, non si rende ancora conto di come quest'ultimo, in realtà, si comporti, cercando cioè di sottrarsi o, quantomeno, di ritardare il più possibile il proprio adempimento…

Quando però qualche cittadino, stanco di sentirsi vessato, decide di rivolgersi alla tutela degli organi della giustizia europea, è solo allora che il Governo italiano, puntualmente condannato per le sue ripetute violazioni, adempie con solerzia, anche assai prima del termine concessogli, al pagamento di quanto dovuto!

È chiaro che ciò potrà ancora avvenire e, pertanto, salvarci dal giudizio della Comunità Europea di Stato inottemperante a livello cronico, solo fino a quando gli italiani che hanno la forza e la costanza (oltre che le risorse economiche) di arrivare fino all'azione avanti alle Corti d'Europa, saranno ancora pochi e, quindi, prontamente tacitabili senza dover sconvolgere le poste della Finanziaria, in quanto il Governo potrà ancora raschiare il fondo del barile… Ma se, coerentemente, quasi tutti gli italiani si ribellassero e, contestualmente, invadessero i giudici comunitari denunciando il reale stato d'insolvenza dell'Italia, ecco come anche in Europa non potremmo più essere in grado di risarcire tutti i diritti lesi e, quindi, le nostre magagne finanziarie verrebbero inesorabilmente al pettine!

Un esempio eclatante di quanto detto ci viene offerto in ambito tributario, ove, notoriamente, l'Amministrazione finanziaria, quando ritiene di dover avere, pretende immediatamente le proprie pretese, anche mediante gravose iscrizioni provvisorie di imposte esecutivamente riscuotibili pur quando è proposto ricorso dal contribuente, mentre quando deve dare, fa di tutto per non riconoscerlo o, se obbligata con condanna di un giudice italiano, per adempiere comunque a babbo morto… È così che si spiega perché lo Stato italiano introduce finalmente la legge anche nel processo tributario che chi perde paga le spese processuali, ma poi, anche se condannato a rifonderle non le paga, pur trattandosi di qualche milione… E perché riconosce il diritto al rimborso dell'Ilor agli agenti di commercio o sancisce il diritto delle società ad avere il rimborso della tassa di concessione governativa, accantonandone i relativi fondi con la Legge Finanziaria, ma poi, non avendo eseguito spontaneamente quanto promesso, si fa condannare…

Ma la sentenza esecutiva e definitiva a favore del contribuente non è poi da sola sufficiente per incassare, in quanto per riscuoterla il creditore dovrà comunque intraprendere un ulteriore processo per l'esecuzione forzata, fino ad arrivare al pignoramento di entrate giacenti presso la Banca d'Italia quale tesoriere del Ministero delle Finanze! Il quale, per di più, continua a sfruttare i propri stessi ritardi, giocando anche su quelli cronici della consorella Amministrazione della Giustizia: si pensi che avanti il Tribunale di Roma accade che l'udienza iniziale che viene indicata nell'atto di pignoramento presso terzi (Banca d'Italia) dall'avvocato che agisce per il contribuente procedente, che per legge non dev'essere inferiore a dieci giorni e di prassi viene proposta in circa trenta, viene fissata d'ufficio a distanza di ben otto mesi!

Ma qui mi accorgo che ci stiamo introducendo in un altro capitolo della storia: quello dei ritardi della giustizia. Per ora è il caso di fermarci, che tanto ce n'è già abbastanza...!


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Generali-Ina, chi guadagna che cosa dall'Opas amichevole

di Paolo Brera

 

(Novembre 1999) La parola fine all'intera vicenda Generali-Ina si potrà mettere solo verso la metà di dicembre, quando l'Opas ormai amichevole dei triestini avrà fatto il suo corso e si saprà con certezza se gli azionisti Ina avranno aderito. Ma nei fatti la questione si può già oggi ritenere definita, perché i possessori dei grandi pacchetti azionari hanno già dichiarato da quale parte pendono ed è ben difficile che fra gli altri azionisti siano in molti quelli inclini a snobbare le indicazioni del Consiglio di Amministrazione dell'Ina.

E dunque, le Assicurazioni Generali formeranno un solo gruppo con l'Ina, e questo gruppo sarà una delle più grandi compagnie di assicurazione europee. I dettagli dell'accordo non sono, in questa luce, molto importanti. Si sa comunque che l'Ina distribuirà un acconto di 500 miliardi sul prossimo dividendo (il che significa semplicemente che alle Generali l'acquisizione costerà un 2 per cento in più); e che Sergio Siglienti, presidente dell'Ina, entrerà nel board delle Generali, mentre l'attuale amministratore delegato Lino Benassi resterà al timone della nuova Ina. Questa riceverà in dote le attività italiane Vita di Trieste e assumerà un ruolo centrale nel nuovo polo assicurativo.

"Non nascondo la mia soddisfazione", ha dichiarato a caldo l'amministratore delegato di Generali Gianfranco Gutty: "crediamo molto in questa operazione, che si conferma un progetto valido anche per l'Ina". In realtà, le sinergie operative fra le due imprese saranno abbastanza ridotte, e quanto al possibile risparmio sui costi - stimato a suo tempo in circa 340 miliardi di lire - le rassicurazioni che il Leone ha dovuto dispensare a destra e e a manca ne minacciano il conseguimento. Ci vorranno anni e anni perché le due realtà comincino davvero a funzionare come una sola. Ma come diceva quello là dagli occhi a mandorla, anche una marcia di diecimila li comincia sempre dal primo passo.

I grandi trionfatori di tutta la vicenda sono Alfonso Desiata, che si è rivelato grandissimo diplomatico, ed Enrico Cuccia. Nelle Assicurazioni Generali più di chiunque altro conta Mediobanca, con il 13 per cento delle azioni, e continuerà a contare così anche dopo la fusione. Mentre quello che sembrava vocato ad essere il contraltare di Mediobanca nel merchant banking italiano, il gruppo SanPaolo-Imi, si trasforma in un quasi-alleato.

Il guadagno dei torinesi è meno netto. L'importanza di ciò che riceverà aderendo all'Opa è ridotta dalle incertezze che ancora avvolgono l'effettivo conseguimento di quanto promesso dalle Generali. Di sicuro il SanPaolo-Imi guadagna una quota fra l'1,6 e il 2,6 per cento delle Generali, e forse più, visto che in ottobre ha incrementato la sua partecipazione in Ina dall'8,60 per cento al 10,17 per cento (una parte della partecipazione è indiretta, quale pegno, e non si sa se sarà conferita all'offerta). Sono in forse invece tanto la quota di Bn Holding - il 51 per cento (l'altro 49 per cento è della Bnl, che ha un diritto di opzione e se lo tiene stretto), quanto le azioni della stessa Bnl oggi in capo all'Ina, sulle quali sembrano gravare diverse incognite. Per il SanPaolo-Imi si apre senza dubbio una stagione di trattative, e difficilmente riuscirà a portare a casa l'intera posta in gioco.

Ma anche così, che mutamento per la finanza italiana! Un gruppo assicurativo che arriva ai più alti livelli europei, un gruppo bancario che si rafforza e consegue, anch'esso, dimensioni tali da farne un player continentale. Cinque anni fa, nessuno se lo sarebbe immaginato. Sarebbe bello se potessimo concludere di essere a buon punto nella ristrutturazione del nostro sistema finanziario, ma così non è. Tutto quello che si può dire è che forse adesso siamo sulla buona strada, e anche l'Italia, tutto sommato, va contata fra i vincitori.


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Generali prosegue l'attacco, l'Ina si cerca un cavaliere bianco. Nel frattempo, si tratta

di Paolo Brera

 

(Ottobre 1999) Il Leone triestino va avanti per la sua strada. E se da un lato ha avviato una trattativa con l'Ina, alla ricerca di un accordo per una soluzione amichevole con la "preda" - come ha ammesso il presidente, Alfonso Desiata - dall'altro ha dato il via all'Opa sulla compagnia di assicurazioni romana guidata da Sergio Siglienti, senza mutare una virgola rispetto a quanto già anticipato e senza pensare minimamente ad un rilancio. "Non molleremo nulla", ha dichiarato tranchantissimo il vicepresidente ed amministratore delegato di Generali Gianfranco Gutty dopo l'assemblea di sabato 29 ottobre, che ha varato l'aumento di capitale da 1.806 miliardi al servizio dell'Opa e ha formalmente approvato l'operazione.

Le ostilità dunque continuano, ma nello stesso tempo si tratta la pace, ed è chiaro che a Desiata piacerebbe trovare una soluzione negoziata, ma si vis pacem, para bellum, come dice il proverbio latino: se vuoi la pace, preparati alla guerra. E, un pochino, di guerra si sta parlando, e a tempi ancora più stretti. L'opa delle Generali sull'Ina, ha annunciato Desiata, "durerà 3 settimane" e si dovrà chiudere entro il 15-18 dicembre. Perciò l'operazione dovrebbe prendere il via alla fine di novembre.

Difficilmente l'Ina avrà il tempo di intraprendere alcuna delle iniziative di intralcio che le recenti sentenze di alcuni organi giudiziari italiani hanno dichiarato essere più che legali. La compagnia di assicurazione è stata presa di sorpresa dall'offerta dei triestini, e ha visto sgretolarsi in pochi giorni l'alleanza su cui contava per difendersi dall'importuno corteggiatore.

A chi si potrebbero rivolgere Sergio Siglienti e Lino Benassi, la coppia che regge l'Ina? Non a Commerzbank, il cui capo delle attività europee Axel von Ruedorffer ha già detto pubblicamente, in un'intervista al Sole24Ore: "Noi sosteniamo le Generali nella loro offerta sull'Ina, perché il rafforzamento della leadership nel settore assicurativo italiano consolida una forte posizione nel mercato di Eurolandia". Non alla Bnl, che ha già annunciato la propria intenzione di vendere la sua quota al migliore offerente. Le indiscrezioni parlano di gruppi assicurativi svizzeri, francesi e anche tedeschi che starebbero valutando la possibilità, e i rischi, di fare da "cavalieri bianchi" dell'Ina. Gli unici papabili però sembrerebbero Axa ed Allianz, che avrebbero i muscoli necessari. Ma ne avrebbero anche l'interesse? C'è un mese di tempo perché possano chiarirlo.

Frattanto, in casa Generali si fanno i conti. L'acquisizione dell'Ina dovrebbe essere finanziata anche tramite l'accensione di nuovo debito. E a chi se ne preoccupava, in assemblea Gianfranco Gutty (uno degli amministratori di Generali) ha risposto con molta tranquillità che l'indebitamento complessivo derivante dal lancio dell'Opa, pari nell'ipotesi di un'adesione al 100 per cento a poco più 15.000 miliardi, "non preoccupa minimamente le società di rating" e si pone a livelli "assolutamente normali per società come le nostre". Gutty ha anche anticipato qualche dettaglio sul trasferimento del ramo Vita di Ina a Generali, dando l'impressione di considerare virtualmente già in porto l'Opa.

Non si può mai sapere, né bisogna sottovalutare i negoziati in corso. Ma quel che sembra chiaro è che la fusione e le operazioni successive, quelle concordato con il SanPaolo-Imi, cambieranno la geografia del settore finanziario italiano. Ne ha parlato la stessa Banca d'Italia, per bocca del governatore Antonio Fazio: la fusione "determinerà un ulteriore consolidamento della struttura proprietaria dei gruppi creditizi al vertice del sistema", e che "potrà comportare modifiche negli assetti di controllo di alcune banche". Che sono, vedi caso, proprio le più grandi in Italia.


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Due domande (e quattro risposte) sull'inflazione

di Paolo Brera

(Ottobre 1999) Guarda un po', l'Italia ha ricominciato a parlare di inflazione. E con quale veemenza! Sembra che siamo sul punto di andare in rovina per un centinaio di tick di troppo. Ma se il nostro Paese non ha mai brillato per senso della misura - eccezion fatta per il campo della moda - bisogna pur riconoscere che di inflazione, dopo i recenti dati, bisognava sì parlare. E parlandone, occorreva e occorre rispondere a due domande: è un problema il nostro tasso di inflazione? È una risposta il provvedimento del governo di tassare un po' meno i carburanti?

Come a volte succede, e scusatemi se mi tocca di essere un po' come i sofisti di quando Socrate non aveva ancora bevuto la cicuta, le risposte a ciascuna di queste due domande sono due, e fra loro contraddittorie. Vediamole, perché forse ne uscirà un po' di chiarezza (altra contraddizione, a pensarci, ma pazienza, la realtà ogni tanto è un po' paradossale).

Prima domanda, è un problema? Sì, è un problema. Come ha ricordato a botta calda il governatore della Banca d'Italia, "L'Italia continua ad essere caratterizzata da una inflazione superiore a quella media dell'area dell'euro". Questo, sommato alla crescita già di per sé bassa, non favorisce le nostre prospettive a breve termine. "L'economia italiana", ha detto Antonio Fazio, "soffre di difficoltà strutturali che le impediscono di realizzare a pieno il potenziale di crescita che possiede. Le stesse difficoltà tendono a ripercuotersi sull'andamento dei prezzi". Inflazione e costo del lavoro crescono più di quanto non si registri nel resto di Eurolandia: a essere in pericolo è la nostra competitività internazionale.

Ma per un altro verso, l'inflazione non è un problema. È stato ancora Fazio a ricordarlo: se da luglio la variazione dei prezzi (destagionalizzata e annualizzata) si è portata intorno al 3 per cento, il tasso tendenziale è al 2 per cento e la media annua dovrebbe risultare intorno all'1,7 per cento. Chi è nato prima del 1968 può ben ricordare tassi del 20 e più per cento all'anno. Un tasso del 2 o 3 per cento non è un problema sociale. È solo un problema concorrenziale.

Come ormai tutti sanno, la preoccupazione manifestata da varie parti ha indotto D'Alema a scremare € 0,0154 dall'importo che il nostro signor Stato preleva su ogni litro di benzina. È efficace questo provvedimento? Ancora una volta, sì e no. È vero che una grossa fetta dell'inflazione si spiega con i rincari del petrolio, ed è vero pure che la riduzione dei prezzi alla pompa che risulterà dal minor carico fiscale, anche solo per motivi aritmetici, smorzerà l'inflazione di qualcosina. Ricordiamoci però che "gli sceicchi" non sono i soli responsabili dell'inflazione in Italia: sull'indice hanno pesato anche la voce "abbigliamento e calzature" e le tariffe (voce "abitazione, acqua, elettricità e combustibili"), con aumenti non trascurabili.

Su questa e su altre voci l'azione possibile si riduce all'intervento microeconomico per abbattere tutti gli intralci alla produzione che fanno salire i costi e quindi i prezzi. Meno adempimenti per le imprese, meno tasse, più infrastrutture: questa è la vera ricetta. Il monito questa volta è venuto dalla Sicilia, dove - a margine della due giorni organizzata dalla Confindustria - il presidente dell'Unione industriali di Napoli con delega per il sud, Antonio D'Amato, ha commentato questa micro-impennata dei prezzi. "L'inflazione in Italia è stata combattuta più attraverso il calo della domanda che aggredendo la struttura dei costi", ha detto D'Amato: "ci si è preoccupati di governare l'emergenza senza riforme di struttura". Che è poi quello che all'Italia rimprovera, senza tanti complimenti, l'ultimo numero di ottobre dell'Economist.


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Bbva-Unicredito, un'alleanza latina che ci fa più europei

di Paolo Brera

 

(Ottobre 1999) È confermato e non se ne può più dubitare: la prospettiva strategica di Unicredito è la virtuale fusione con il Banco Bilbao Vizcaya Argentaria (in sigla Bbva). L'ultima conferma è venuta da Pedro Luís Uriarte, amministratore delegato del Bbv e futuro vicepresidente del Bbva(la seconda entità finanziaria della Spagna), in due interviste. "Vogliamo essere la banca leader del mondo latino", ha detto Uriarte: "Ed è molto importante l’idea dell’alleanza strategica. Noi non abbiamo il capitale, anche come Bbva, per fare un’operazione convenzionale in Europa. Sarebbe inconcepibile un’operazione ostile in Francia o in Italia. Per cui l’approssimazione dev’essere quella di alleanza strategica, uno scambio azionario che presupponga una fusione a bassa intensità". Unicredito era già stata al centro dell’intervista rilasciata domenica 24 ottobre a El País da Emilio Ybarra, futuro copresidente del Bbva, attuale presidente del Bbv ed azionista di riferimento, con il 10 per cento delle azioni, della Bnl. "Stiamo negoziando lo scambio di azioni, più del 10 per cento. Non sappiamo quanto tempo ci vorrà. C’è una grande politicizzazione in Italia in qualsiasi decisione e la Banca d’Italia ha poteri molto maggiori di altre banche centrali. Per ora, è uno scambio azionario con forte collaborazione in quei business che sono suscettibili di appoggi mutui, soprattutto in attività transnazionali, di grandi imprese, di multinazionali". Sul versante italiano Dino De Poli, presidente della Fondazione Cassamarca, azionista dell'Istituto di Piazza Cordusio, ha a sua volta ribadito la realtà del progetto: "Per Unicredito la strategia è la fusione con il Bbv-Argentaria: questa è la linea da seguire, il resto è tattica".

Non è già cosa fatta e i dettagli ovviamente riposano ancora in mente deorum. Fatta questa sola riserva, d'altro canto, è difficile sopravvalutare l'importanza dell'operazione. In gioco è niente meno che la creazione della terza o quarta banca dell'Unione europea per mezzi amministrati. E la logica dell'alleanza-fusione è impeccabile: tanto Bbva che Unicredito sono il risultato di complesse operazioni di tipo federalista: anche a prescindere dalla "identità latina" comune a entrambe le banche, dunque, le rispettive culture aziendali sembrano a priori alquanto compatibili.

È del tutto certo che il progetto non lascerà le cose come stanno nel sistema bancario italiano, da qualche mese teatro di veri terremoti. Unicredito infatti sembra essere il destinatario finale della quota oggi di proprietà dell'Ina nella Banca Nazionale del Lavoro, e per di più è uno dei partecipanti alla corsa per il Mediocredito centrale, insieme al quale acquisirebbe anche il controllo del Banco di Sicilia. Qui il condizionale è d'obbligo perché ci sono altre due cordate, quella della Popolare di Vicenza e quella della Banca di Roma, e la partita è apertissima. Gli spagnoli per parte loro detengono già il 10 per cento della Bnl. Riunendo le due quote anche Bnl verrebbe di fatto a far parte della nuova alleanza. E a quel punto il rango di quest'ultima nella graduatoria europea salirebbe ancora, forse perfino tanto da fare dell'ipotetico Banco Bilbao Unimediocredito Vizcaya Argentaria di Sicilia Nazionale del Lavoro (o come accidenti si chiamerà, io sonoramente rinuncio a fare previsioni!) il numero uno in Europa.

C'è ovvio fermento anche tra gli azionisti di Unicredito. Si è già registrato il prevedibile no comment sulla fusione da parte di Deutsche Bank e Ras, i due soci tedeschi della banca. Ma la Ras, controllata dal colosso Allianz, era cresciuta nei giorni precedenti da circa 3 al 5 per cento della banca italiana. Un segnale per ribadire la propria autorevole presenza di fronte all'evolversi dei negoziati con gli spagnoli e dell'operazione Bnl? Nulla di più probabile.

A parte la situazione del Banco di Sicilia, per il quale il puro e semplice assorbimento da parte di un grande gruppo sembra peggiore del profondo ancoraggio al mercato finanziario prospettato dalla Popolare di Vicenza e dai suoi alleati, l'alleanza rappresenterà sicuramente un notevole passo nel senso dell'europeizzazione del nostro sistema bancario. In questi termini, è sicuramente la benvenuta. Resta da vedere se otterrà – dal governo e dalla Banca d'Italia – tutti gli OK necessari.


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Enel, il mercato ha visto la luce. O crede alle fate?

di Paolo Brera

 

(ottobre 1999) Non poteva debuttare in una giornata peggiore di quella del 18 ottobre, il collocamento dell'Enel (l'ex monopolio pubblico dell'elettricità in Italia). Eppure, sfidando il Niagara ribassista di Piazza degli Affari, nel primo giorno dell'offerta le azioni Enel sono andate a ruba, e al ministero del Tesoro già pensano di aumentare ancora la quota da cedere. Nei giorni scorsi la prima tranche era già salita dal 15-18 al 20-23 per cento del capitale, ma ora si discorre di portarla addirittura al 30 per cento. Incasso previsto: 15,5 miliardi di euro, cosa che fa dell'Ipo in corso (la sigla sta per "Offerta iniziale al pubblico") una delle maggiori al mondo di quest'anno - e dell'Enel, secondo le parole del direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, "il più grande operatore elettrico a livello mondiale in termini di capitalizzazione".

Il mercato, quindi, ha mostrato di credere alle fate. Quelle dello spot pubblicitario, si capisce. Ma comprare le azioni Enel, in definitiva, è un affare o no? Rispondere a questa domanda non è per niente facile. Intanto, non poco dipende dal prezzo definitivo, che sarà noto solo alla fine dl collocamento. Poi è chiaro che buona parte della redditività dell'impresa si deve al regime di monopolio, che non durerà ancora per molto. Ma a favore della società elettrica gioca, già di per sé, il suo gigantismo. La società, la maggiore per capitalizzazione della Borsa italiana, entrerà di diritto in tutti gli indici che contano, dal Mib30 all'Eurostoxx. Volenti o nolenti, i gestori professionali dovranno fare spazio all'Enel nei loro portafogli, e questa domanda obbligata sosterrà i corsi.

Le grandi attrattive del collocamento le ha succintamente spiegate l'amministratore delegato Franco Tatò: "Siamo seduti su una miniera d'oro". E ha così descritto la società: "Un gruppo multiservizi, con una diversificazione in attività correlate, non una conglomerata". Anche se sul prospetto le Avvertenze, appunto, avvertono che vi sono incertezze derivanti dal riassetto tariffario (che solo nel 2000 comporterà minori incassi per 1.300 miliardi di lire), dalla vendita obbligata entro il 2003 di quasi un quarto della capacità produttiva, dalla sorte prevista per la partecipazione in Wind.

È proprio la telefonia, insieme alla partecipazione in Telepiù, uno degli asset più ricchi e più controversi. Tatò, durante il road show, ha dichiarato senza mezzi termini che il gruppo punta moltissimo sulla diversificazione e in particolare su Wind. "Un'assemblea ha deliberato che Wind vada ceduta, peraltro nel medio termine, e una nuova assemblea può deliberare che non si vende più", ha detto, facendo ben capire come la vede lui. Però Mario Draghi ha ribadito l'impegno alla cessione, anche se appunto "nel medio termine". La formula della multiutility dispiace agli americani, ma in Europa sembra invece promettente, perché il know-how per gestire la fatturazione a un gran numero di clienti (e quelli dell'Enel sono 29 milioni) è uno dei maggiori ostacoli all'ingresso di competitori sui mercati delle utilities.

"Nel 2004", ha detto ancora Tatò, "contiamo di raggiungere il 25 per cento dei ricavi dalle attività diversificate, con un contributo al margine operativo lordo del 27 per cento". Telecomunicazioni (Wind,1,3 milioni di clienti), tv (30 per cento Telepiù, 1,2 milioni di abbonati), acqua (l'Acquedotto pugliese, 4,5 milioni di utenti), e presto il gas: "Ci stiamo guardando in giro. Lì sì che c'è ancora il monopolio". Il piano passa anche attraverso il taglio dei costi: nel prospetto si prevede una riduzione entro cinque anni di 25.000 dipendenti (-30%), sia pure con metodi "dolci" quali il prepensionamento e l'esodo incentivato.

Con i recenti chiari di luna della Borsa, qualche incertezza sul futuro dell'azione Enel è ben comprensibile. Non bastano i fondamentali, anch'essi del resto non del tutto univoci, bisogna anche che il mercato azionario non si avviti in una disperazione senza fine. Quasi nessun titolo può rimontare a lungo la corrente dei ribassi di Borsa. Ma se uno può farlo, questo è forse l'Enel. Bisogna infatti ricordare che sul mercato arriveranno abbastanza presto altre due tranche della società elettrica. Enel oggi come oggi non è contendibile, né lo sarà per un bel pezzo; ma perché Roma possa bussare di nuovo a soldi presso i risparmiatori, bisognerà non averli delusi. È assai probabile, quindi, che le quotazioni saranno in qualche modo difese da chi di dovere.


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Generali-Ina, un evento epocale

di Paolo Brera

 

(Ottobre 1999) Sull'accordo fra SanPaolo-Imi e le Generali per la spartizione dell'Ina la Borsa di Milano si è espressa già il primo giorno in modo che più chiaro non si poteva: in un contesto di calma piatta, il titolo Ina ha perso il 4,52 per cento, le Generali lo 0,42, mentre il SanPaolo è salito di oltre due punti. Una valutazione che rispecchia l'ingente spesa che dovrà fare Generali e l'espansione che la banca torinese conquista senza colpo ferire. Al di là delle reazioni immediate, non c'è dubbio che siamo di fronte a un evento epocale per il sistema finanziario italiano. E non solo per il settore assicurativo, ma anche per quello strettamente bancario.

Ricapitoliamo l'accordo. Generali ha di fatto via libera per acquisire l'Ina, e Alfonso Desiata, presidente del Leone triestino, ha ragione a dire che "è prevalsa la ragionevolezza". Con questa acquisizione il gruppo Generali conquista il primo posto in Europa nel ramo Vita. Due grandi imprese svizzere, Swiss Re e Credit Suisse, che avevano un consolidato rapporto industriale e finanziario con la compagnia di assicurazione romana, dovranno rifare molti dei loro conti. Si è parlato di un loro intervento come "cavalieri bianchi": ma vi sono evidenti ostacoli, anche non strettamente finanziari, visto che il governo sembra gradire la soluzione attuale.

Ad impressionare davvero è quello che riceverà il SanPaolo. Aderendo all'Opa, avrà fra l'1,6 e il 2,6 per cento delle Generali: e quello che sembrava il principale contrappeso a Mediobanca nel merchant banking italiano si trasforma ipso facto in un partner. Tanto di cappello a Cuccia, che prima ha attirato nel suo campo grandi personalità come Bazoli e Desiata (un tempo suoi oppositori) e oggi ha creato un altro tavolo di mediazione con la finanza cattolica.

SanPaolo riceverà anche il 51 per cento di Bnl Vita, ventesima compagnia di assicurazione italiana, la rete degli agenti Ina Sim, e Banca Proxima, una banca telematica. Addirittura cruciale è il fatto che i torinesi conquisteranno il 51 per cento di Bn Holding attualmente in portafoglio all'Ina (l'altro 49 per cento è della Bnl), e quindi potranno aggiungere ai loro 1400 sportelli i 700 del Banco di Napoli, controllato appunto da Bn Holding. In questo modo, SanPaolo diverrà una delle tre più grandi banche italiane, che si spartiranno il 40 per cento del mercato. Le altre due saranno BancaIntesa-Comit (la relativa operazione di Borsa è in corso proprio in questi giorni) e, probabilmente, l'aggregazione Unicredito-Bnl.

Due altre megabanche potrebbero vedere la luce nei prossimi mesi, completando la ristrutturazione del settore in Italia: BancaRoma-Mediocredito-Banco di Sicilia (la Banca di Roma è in gara per acquisire dal Tesoro le altre due) e Montepaschi-Banca del Salento. A quel punto ci saranno a sud di Chiasso cinque colossi del credito, con larghe partecipazioni estere, e l'internazionalizzazione del settore bancario italiano sarà cosa fatta.

Sono ben poche le cose che potrebbero ostacolare la trasformazione. Né Ina né Bnl sembrano in grado di opporsi all'acquisizione e alla spartizione della compagnia assicurativa: al più, la banca potrebbe ottenere qualche contentino per la perdita del Banco di Napoli. L'offerta delle Generali è vantaggiosa per gli azionisti dell'Ina e non si vede perché questi dovrebbero rifiutarla. Infine, non solo il sistema politico ma anche la Banca d'Italia si sono pronunciati a favore. L'inevitabile risultato sarà l'emergere in Italia di un settore finanziario forte e concentrato - e ciò molto prima di quanto non si prevedesse. In questo risiede la vera importanza dell'accordo.


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Il rilancio del Sanpaolo su Ina: ma il guadagno, dov’è?

di Paolo Brera

 

(Ottobre 1999) La conferma è venuta da Gianfranco Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo, che parlava alla Bocconi di Milano, e vale la pena di citare le sue parole: "Sappiamo", ha detto Guzzetti a margine di una cerimonia in memoria di Giovanni Spadolini, "che c'è una proposta, quella delle Generali, che ha già fatto salire il valore della nostra partecipazione in Ina. Credo che (il SanPaolo) presenterà altre proposte che saranno migliorative rispetto a questa. Ce lo auguriamo, le valuteremo". Con questo la Fondazione ha anche ribadito la propria sostanziale neutralità.

Sulla controproposta del SanPaolo (che dovrebbe essere discussa proprio oggi dal consiglio di amministrazione della banca torinese, sul quale peraltro c’è il piccolo "giallo" della mancata convocazione ieri) sono già circolate alcune indiscrezioni. Il succo è che l’offerta sarà formulata dalla controllata Banca Fideuram, riguarderà il 100 per cento della compagnia di assicurazioni, e sarà essenzialmente cash.

L’intera vicenda, così come si è sviluppata fino ad oggi, lascia comunque alquanto perplessi. Le motivazioni dei principali attori sono abbastanza oscure. Non è difficile, a dire il vero, percepire l’interesse delle Generali: solo che così come si presentano oggi le cose la battaglia è una di quelle che non si possono vincere, e allora perché ingaggiarla (come direbbe il maestro di strategia Sun Tzu)? Quanto al SanPaolo, non sembra abbia molto da guadagnare da un’eventuale vittoria, e ancor meno da una lotta di retroguardia.

Nelle fusioni, di solito, i principali vantaggi vengono dai risparmi che è possibile conseguire sui costi razionalizzando le strutture; solo in un secondo tempo si manifestano i vantaggi derivanti da un maggiore potere di mercato. Per il Leone di Trieste il risparmio sui costi in caso di fusione con l’Ina è evidente, ed è stato stimato in circa 340 miliardi di lire. Invece per quanto riguarda l'integrazione SanPaolo-Ina le sinergie di costo sembrano quasi assenti. C’è poco da rosicchiare nel ramo Vita e niente, o quasi, nei Danni.

Gli unici risparmi di una qualche entità si potrebbero realizzare fra SanPaolo e il Banco di Napoli (e forse con Bnl, ma qui la partita, come ha scritto Adriano Bonafede su Repubblica, è più complicata, perché la quota di Ina non dà il controllo). Ma le Generali hanno detto chiaro di essere pronte a cedere le partecipazioni bancarie, e qui ci sarebbe sicuramente spazio per un accordo, senza stare ad opporsi frontalmente ai triestini.

È stato ipotizzato che il SanPaolo intenda far perno sulla rete dell’Ina per tramutare i milioni di clienti Ina in clienti bancari, e quindi agire sul lato dei ricavi più che su quello dei costi. Ma è possibile? Le determinanti della scelta di una banca non sono le stesse che conducono a scegliere fra altre una compagnia di assicurazione. Inoltre la cultura del gruppo SanPaolo-Imi è più federalista che accentratrice, e ciò si concilia male con il modello della bancassurance.

Resta un forte interrogativo: se Generali pensi davvero di riuscire a vincere, quando agli alleati del SanPaolo-Imi – grazie a una situazione giuridica e statutaria particolare – basta arrivare a un 30 per cento di Ina per sventare l’offerta, e sono già oltre il 20. Con un decimo di Ina in più i torinesi potrebbero impedire che saltasse dallo statuto Ina il limite del 5 per cento dei voti per ciascun azionista e mettere in atto tutte le contromosse possibili ai danni di Generali. Ma a Trieste questo non lo sapevano già da prima? Ci dev’essere al riguardo qualcosa che Cuccia sa e noi non sappiamo. Il che, beninteso, non potrebbe stupire nessuno.


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L’opa Unim rilancia il settore immobiliare

di Paolo Brera

 

(Settembre 1999) Schiacciata dal contemporaneo affaire Ina-Generali e dalla ristrutturazione Telecom, l’offerta pubblica di acquisto sulla Unim lanciata dalla Milano Centrale (controllata da Pirellina) è passata quasi inosservata. Immeritatamente. Questa mossa promette infatti di essere la fanfara che in Italia riaprirà i giochi del settore immobiliare, imbalsamato da quasi nove anni di recessione.

Le dramatis personae. La Unim è nata un paio d’anni fa da una costola dell’Ina, che come tutte le compagnie di assicurazione possedeva moltissimi immobili. Da allora, il suo prezzo di Borsa ha oscillato fra 337 e 499 millesimi di euro (l’offerta Pirelli è 0,49). Il suo patrimonio immobiliare è fra i maggiori posseduti in Italia da una sola impresa.

Il nome della Milano Centrale è collegato all’ambizioso progetto Tecnocity, che valorizza la vecchia zona della Bicocca a Milano (dove appunto la Pirelli possedeva chilometri e chilometri di aree industriali poi dismesse). Per la società Marco Tronchetti Provera ha progetti grandiosi: "Il nostro obiettivo", ha detto, "è di far crescere Milano Centrale, che già oggi è leader in Italia, dove gestisce patrimoni immobiliari per oltre 3.500 miliardi, per farla diventare uno dei maggiori protagonisti del settore in Europa". Come? Trasformando la Unim, impresa tradizionale nel cui portafoglio ci sono immobili di tutti i tipi, in più società specializzate analoghe, nella sostanza, ai fondi immobiliari americani. La controllata del gruppo Pirelli, conformemente alla sua vocazione, sarà a questo punto destinata a svolgere l'attività di gestione del patrimonio Unim, condividendo il rischio attraverso la partecipazione azionaria nelle nuove imprese scorporate. Un'operazione da 2,2 miliardi di euro che, secondo i programmi, dovrebbe partire a gennaio dell'anno prossimo e andare in porto entro fine febbraio.

Di qui ad allora, siàmone certi, succederanno molte cose. Non solo e non tanto sul piano della finanza, sebbene a dire il vero l’elenco degli alleati della Pirelli sia impressionante: finanziatori del progetto infatti sono Mediobanca, Banca Intesa, Unicredit e Morgan Stanley, consulenti dell’Opa ancora Mediobanca e Unicredit, consulenti di Milano Centrale Caboto e Lazard Vitale Borghesi. Né per gli sviluppi futuri, anche se Milano centrale e Unim sono in gara su fronti opposti per il gli immobili dell'Eni e per il 49 per cento di Grandi Stazioni, la società che sarà scorporata dalle Ferrovie dello Stato. Ma per l’effetto di richiamare finalmente l’attenzione sullo stato anomalo del settore.

Anni e anni di vacche magre hanno affollato il listino di società immobiliari la cui capitalizzazione di Borsa suscita quasi l’ilarità rispetto al vero valore dei loro patrimoni. La relativa liberalizzazione avvenuta nel settore e la discesa dei tassi d’interesse hanno ormai caricato al massimo la molla del business immobiliare. Lo si è visto, un po’ più di un anno fa, quando è stata scalata Aedes. Lo si sta vedendo con il passaggio di mano di Risanamento Napoli. Lo si vede con una società, la Brioschi, che possiede immobili egregi, opera in un ramo di sicuro avvenire (i centri commerciali), ed è valutata dal mercato meno del valore dei mezzi liquidi conferiti con l’ultimo aumento di capitale. Il fatto è che gli analisti finanziari e gli investitori sono gregari, e quel che non vede l’uno difficilmente vedrà il suo vicino. Ma fate che ci sia un po’ di tiremolla sulla Unim, amichevole o meno che risulti il takeover, e tutte queste situazioni si imporranno all’attenzione di tutti. A quel punto i titoli immobiliari si metteranno a fare scintille. C’è solo da sperare che le scintille non si tramutino in un fuoco speculativo – e che nessuno resti scottato.


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Generali-Ina, quattro mesi di intrattenimento assicurato

di Paolo Brera

 

(Settembre 1999) E due! Dopo il più grande takeover d’Europa, quello di Telecom, Mediobanca ne ha impostato, in terra italiana, un altro che promette di essere ancora più combattuto. Con l’offerta di Generali per la totalità dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, assisteremo ad almeno quattro mesi di battaglie finanziarie, coronate – se e solo se l’avranno vinta i triestini – dalla formazione della terza compagnia assicurativa d’Europa, con un ampio dominio della sua zolla natia e un piede grande come una zampa d’elefante nella bancassurance italiana.

Le Assicurazioni Generali infatti sono una vera public company, all’interno della quale oggi di fatto comanda Mediobanca, con appena il 13 per cento. E continuerebbe a comandare – col 10 per cento – anche dopo la progettata fusione con l’Ina. Dopo Mediobanca avrebbe il 4,3 per cento la Banca d’Italia e il 3,8 per cento Lazard, che da Parigi ha già fatto sapere indignata di non essere stata neppure informata dell’offerta (uno schiaffo di Cuccia). Al quarto posto verrebbe il gruppo San Paolo-Imi, con un insignificante 2,5 per cento e senza più nessuna prospettiva di arrivare all’integrazione in progetto con l’Ina e le sue "dipendenze" bancarie – nientepopodimeno che il Banco di Napoli (l’Ina è azionista di maggioranza della holding) e la Bnl, nella quale possiede un buon 7,25 per cento.

Nel club ristretto degli azionisti Ina, organizzato dal presidente Sergio Siglienti, stanno oltre al San Paolo il Credit Suisse, Swiss Re, la Fondazione Cariplo e la Caisse National de Prévoyance. Vicina al San Paolo è la famiglia Agnelli, che ha reagito duramente all’Opa: "Un'operazione prepotente, lontana dallo stile e dalla tradizione delle Generali stesse", l’ha chiamata Umberto Agnelli. Deve bruciare molto, chiaro. Nella battaglia che si preannuncia, insomma, con il San Paolo sarà sicuramente schierato il gruppo Agnelli, con Fiat, Ifi, Ifil e Toro Assicurazioni.

Dall’altra parte, oltre alle Generali, ci saranno Mediobanca, le banche ad essa vicine e il gruppo Compart, anch’esso più o meno dominato da via Filodrammatici. Di quest’ultimo gruppo fa parte anche una compagnia di assicurazione, la Fondiaria di Firenze, che a questo punto potrebbe anche finire nell’orbita delle Generali e così rafforzarle ulteriormente.

Se si scorre la lista dei consulenti o dei finanziatori delle Generali per questa offerta – Comit, Banca di Roma, Banca Intesa, Commerzbank, Unicredito e Crédit Agricole – si ha la decisa impressione che Trieste non sia partita per la guerra impreparata. Per esempio Giuseppe Guzzetti, presidente di quella Fondazione Cariplo che è azionista Ina con il 3,75 per cento, ha detto: "Il nostro interesse è la valorizzazione del patrimonio". Come dire che la quota andrà al migliore offerente. La Fondazione è in Banca Intesa, cui (ma to’!) Mediobanca ha fatto gentile omaggio della Comit.

Nel mondo ultra-incestuoso della finanza italiana, tuttavia, molti sono i gruppi che hanno i piedi in entrambe le scarpe o che hanno interessi consistenti ma non decisivi, e il loro atteggiamento è ancora in buona misura ignoto.

Tra gli altri attori dell’economia, il governo avrebbe preferito la soluzione San Paolo-Imi, e l’ha pure detto con insolita, non-bizantina chiarezza. Ma non può fare gran che. La Banca d’Italia, che non ama le Opa ostili, è competente a pronunciarsi solo per uno degli aspetti dell'Opa, le conseguenze sul settore bancario. Il vento sembra dunque soffiare nelle vele triestine. Ma è pur vero che a Torino non se ne staranno con le mani in mano, e le vicende finanziarie italiane degli ultimi tempi ci hanno abituato alle sorprese. Insomma, abbiamo davanti qualche mese di intrattenimento.


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Le azioni di risparmio: un po' di trasparenza, please

di Paolo Brera

 

(Agosto 1999) Abbiamo un bel dire che il mercato azionario italiano è cambiato, che si è modernizzato, che è diventato più trasparente e più rispettoso dei diritti degli azionisti di minoranza. Ma il lupo di piazza degli Affari – quel lupo che curiosamente è a volte toro e a volte orso – perde il pelo ma non il vizio. E in nessun àmbito la cosa è più evidente che nel campo delle azioni di risparmio, una caratteristica peculiare del nostro mercato azionario.

Le azioni di risparmio sono una particolare categoria di azioni privilegiate. Azioni con qualche tipo di privilegio esistono anche in altri Paesi, ma sono meno diffuse e meno regolamentate; sui mercati finanziari anglosassoni, poi, sono praticamente sconosciute, perché la cosa più importante è la contendibilità del controllo delle imprese. In Italia, le azioni di risparmio sono state istituite da una legge degli anni Settanta e di nuovo regolamentate dalla Legge Draghi. L’idea era, in un mercato dominato dagli insider e dalle maggioranze azionarie, di permettere ai risparmiatori di avvicinarsi all’investimento in Borsa con maggiori garanzie (infatti, solo le aziende quotate possono emettere azioni di questo tipo).

Le azioni di risparmio non votano in assemblea ma pagano dividendi più stabili e più alti. Per difendere i loro interessi specifici, gli azionisti di risparmio hanno il diritto di nominare un rappresentante che è un po’ il sindacalista di questa categoria di azionisti; inoltre, per alcune poche delibere aziendali è necessario l’assenso dell’assemblea speciale degli azionisti di risparmio.

Le garanzie si arrestano qui. Se c’è un’Offerta pubblica di acquisto (Opa) sui titoli di una società quotata, essa può benissimo essere – e di solito è – limitata alle sole azioni con diritto di voto: gli azionisti di risparmio sono completamente tagliati fuori. Questo anche quando uno dei propositi dell’Opa è quello di revocare la quotazione in Borsa di una società, cosa che ha ovvie conseguenze sulla liquidità dell’investimento dell’azionista di risparmio.

Anche le assemblee speciali degli azionisti di risparmio e la nomina del rappresentante possono essere ridotte a burletta da maggioranze azionarie disinvolte. Molte società, per anni, hanno evitato di convocare le assemblee speciali che avrbeebro dovuto eleggere il rappresentante. In altri casi, l’azionista di maggioranza si è presentato all’assemblea speciale con un dieci o dodici per cento dei voti (il più delle volte sufficiente per dettar legge) e ha nominato il rappresentante che voleva.

Il problema non è che il rappresentante venga eletto da una quota esigua delle azioni di risparmio in circolazione. Lo scopo della legge infatti è del tutto vanificato se il rappresentante degli azionisti di risparmio è comunque espressione dall’azionista di maggioranza. Il rappresentante deve difendere, contro eventuali abusi degli azionisti ordinari, una categoria di azionisti che non può votare in assemblea ordinaria. Ma l’azionista di maggioranza vota e come, e anzi è proprio lui a prendere le decisioni che gli azionisti di risparmio potrebbero voler contestare. Che sia lui a nominare il rappresentante ha tanto poco senso quanto che in un’impresa sia l’imprenditore a designare i rappresentanti sindacali.

La legge non proibisce un simile comportamento, e astenersene è quindi lasciato alla sensibilità e all’amore della trasparenza delle maggioranze azionarie. Si possono citare esempi di una tale sensibilità come anche esempi della perfetta assenza di essa. Ma se la sensibilità dev’essere l’unico baluardo degli azionisti di risparmio… be’, come si diceva una volta, stiamo freschi. In attesa che l’anacronismo rappresentato da questa categoria di azioni scompaia, non sarebbe male che la Consob mettesse il naso con più decisione in questi problemi.


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Visco, un pessimo ragno da Web

di Nicola Sardi

 

(Agosto 1999) Il Ministero delle Finanze ha da tempo aperto un sito su Internet: www.finanze.it. Da due mesi l'ha arricchito con un nuovo servizio, dedicato soprattutto agli avvocati: tassazione on line degli atti giudiziari.

Il nuovo servizio è destinato a fornire i dati e gli importi da pagarsi in relazione alla tassazione di qualunque atto giudiziario, da registrare presso gli Uffici del Registro - Atti Giudiziari, dislocati su tutto il territorio nazionale.

Purtroppo, la pur evidente utilità del nuovo servizio è del tutto vanificata dall'impossibilità per l'utente di collegarsi, a causa di ragioni tecniche imputabili al Ministero, il quale, con tutta probabilità, ha preso uno spazio web assolutamente inadeguato al numero dei potenziali utenti del servizio: si pensi al fatto che in Italia risultano esistere oltre centomila avvocati, la stragrande maggioranza dei quali esercita il diritto civile e, pertanto, avrebbe la necessità di registrare per i propri patrocinati i provvedimenti giudiziari emessi. Nella realtà, gli effettivi utenti del servizio non sono poi tanto numerosi: il loro numero, approssimativamente, non dovrebbe superare i 10.000. Molti avvocati infatti esistono solo sulla carta presso i rispettivi Ordini, mentre effettivamente non esercitano la professione. Inoltre Internet è ancora poco diffuso in questa professione.

Peraltro, le obiettive difficoltà di collegamento al sito del Ministero sono cosa ben nota a tutti, visto il certo elevatissimo numero di utenti che quasi quotidianamente ha bisogno di attingere alle continue novità che la macchina fiscale ci propina… Ma gli utenti sanno anche bene come il sito del Sole-24 Ore, pur avendo la stessa potenzialità di essere ricercato da un altrettanto elevato numero di visitatori come quello delle Finanze, non crea le stesse difficoltà di navigazione.

Perché allora avviene questo? Perché, come al solito, rispetto al privato le strutture a disposizione dell'Amministrazione si mostrano anche in web inadeguate, in quanto il settore pubblico non solo non è mai all'avanguardia, ma oltretutto non si muove mai al passo con i tempi frenetici dettati dalla continua evoluzione che la tecnologia oggi è in grado d'offrire.

Eppure, nonostante ciò, il signor Ministro Visco, lo stesso che si è dimostrato così cattivo "ragno da Web", confida nell'efficienza del nuovo Fisco telematico, introdotto a partire da quest'anno, propedeutico per quello che sarà il Fisco che ci aspetta nel terzo millennio.

Quest'anno, nel corso dei prossimi mesi di settembre e ottobre, ben oltre 60.000 soggetti abilitati dal Fisco (dato relativo al primo quadrimestre) trasmetteranno tutte le dichiarazioni che avranno ricevuto in presentazione a partire dall'inizio dell'anno. Pertanto, risulta più che fondata e condivisibile la seria preoccupazione recentemente manifestata dagli operatori del campo fiscale, per la quale in quel periodo potrebbe verificarsi un tilt del sistema telematico attualmente a disposizione dell'Amministrazione Finanziaria.

Il Fisco ha infatti l'obbligo di inviare a mezzo posta elettronica, a ciascun operatore che trasmette telematicamente i dati delle dichiarazioni, la ricevuta di corretta ricezione dei file di ciascun contribuente. Altrimenti, deve comunicare quali file non risultano conformi alle specifiche tecniche previste dai decreti ministeriali di approvazione dei singoli modelli di dichiarazione, evidenziando anche il motivo dello scarto. Il tutto deve avvenire da parte del Fisco entro il termine massimo di cinque giorni, nell'ipotesi di prossimità delle scadenze.

È chiaro che l'utente del servizio telematico, qualora non gli sia pervenuta la ricevuta nel termine massimo stabilito, cercherà comunque di ritrasmettere le dichiarazioni, nel dubbio di non averle regolarmente trasmesse… Sempre che, in precedenza, sia riuscito ad avere il collegamento col servizio del Ministero!

Anche qualora il collegamento sia stato possibile, siamo proprio sicuri che poi la macchina telematica fiscale sarà in grado di sostenere l'ondata di invio di ben oltre 60.000 utenti che trasmettono e ritrasmettono milioni di file pressochè in contemporanea? Che Dio ce la mandi buona!


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Ma quale "nuova economia"!?

di Paolo Brera

 

(Agosto 1999) Sono più di otto anni che l’economia americana cresce a ritmo sostenuto senza innescare una vera ripresa dell’inflazione. Ciò avviene sebbene la disoccupazione sia a livelli storicamente bassi e il mercato del lavoro sia teso. Per spiegare questo enigma alcuni economisti hanno parlato dell’emergere di una "nuova economia", creata dalla diffusione delle tecnologie itc (informatica e telecomunicazioni) nell’intero tessuto produttivo. Questa avrebbe generato un incremento rapido e regolare della produttività del capitale e del lavoro. Conseguenza: la crescita non genera più inflazione, e Wall Street può continuare a correre senza limite perché gli attuali corsi non appaiono più sopravvalutati se l’aumento della produttività, come è normale, fa salire gli utili aziendali.

Infinita è la capacità degli economisti di estrarre leggi epocali da trend di breve durata, scordando il vecchio ma gagliardo detto per cui "A trend is a trend is a trend – until it bends" (Traduzione italiana, con tanto di licenza poetica: "Come sale, quel trend! Finché non scend’…"). Gli economisti americani, in particolare, amano molto farsi pusher della perniciosa droga dell’ottimismo a tutti i costi. Però l’America è pur sempre la terra delle infinite possibilità, e si è trovato anche uno studioso disposto a confutare la teoria della "nuova economia": Robert Gordon, della Northwestern University. Gordon si è dato la pena di analizzare i dati sulla produttività, e in particolare quelli sulla produttività oraria del lavoro (già che esistono diverse definizioni di produttività).

Orbene, i dati indicano che la produttività è cresciuta dal 1991 in poi dell’1,6 per cento all’anno, che è più dell’1,3 registrato negli anni Settanta e Ottanta ma un bel po’ meno del 2,6 per cento degli "anni d’oro" dal 1953 al 1973. Buona parte della ripresa si è verificata dopo il 1995. Un caso? No: in larga misura, ciò è stato il puro e semplice risultato di un mutamento nella rilevazione statistica dell’inflazione, che ha rivalutato (sulla carta) il valore della produzione. Con le attuali definizioni, l’incremento del periodo precedente sarebbe stato anch’esso più elevato, togliendo quel carattere di "novità" che tanti economisti vogliono a tutti i costi scorgere nell’economia americana di oggi.

Certo, sui dati influiscono anche altri fattori. Uno importante è stato il fatto che la ripresa economica, contrariamente a quanto avviene di solito, è partita piano per poi accelerare. Nelle fasi iniziali di una ripresa c’è molta capacità inutilizzata, e gli indici di produttività salgono rapidamente. Se si depurano le serie statistiche da questo effetto, si arriva a determinare nell’1,5 per cento (e non più nel 2,2 per cento) l’aumento della produttività nell’ultimo quadriennio. Non siamo poi troppo lontani dall’1,3 per cento dei decenni senza itc.

Ma l’itc ha inciso, eccome. Infatti, se si disaggregano per ramo industriale i dati, la produttività risulta essere aumentata… praticamente solo nel settore della produzione di computer!

A questo punto la conclusione è obbligata: non c’è nessuna "nuova economia", e la buona performance dell’economia americana non poggia su alcun aumento straordinario della produttività, ma su altri fattori.

Quali? Gordon non lo dice, ma il primo fra tutti è il domination effect che consente agli americani, e solo a loro, di non rispondere mai degli sfracelli che subisce la loro bilancia dei pagamenti. Altre circostanze esterne (la crisi dell’Asia, i trend di prezzo delle materie prime che hanno a lungo sfavorito i produttori…) hanno giovato all’economia. Ma queste non si devono né all’itc né ad una particolare saggezza dei governanti. E Wall Street, diamocene per intesi, non potrà, come non ha mai potuto, crescere sempre senza mai fermarsi.


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La ripresa mondiale è ancora fragile

di Paolo Brera

 

(Agosto 1999) Molti, assorbiti dalle vacanze estive, forse non l’hanno notato. Ma sta di fatto che l’intero mese di agosto, per l’economia mondiale, si è come trascinato, stancamente, in attesa dei due appuntamenti monetari gemelli degli ultimi giorni: la riunione della Fed e quella della Bce. Da questi si pensava potessero scaturire eventi imprevisti, capaci di mutare il corso delle cose. Non è successo. Ma nell’attesa, non s'è mossa foglia. E solo ora, con entrambi gli appuntamenti felicemente alle spalle, si può tirare il fiato e interrogarsi su quanto ci attende nell’immediato futuro.

Una cosa appare del tutto evidente: la corsa dell’economia americana è giunta alla fine. Già nel secondo trimestre, come ha mostrato l’ultima revisione statistica, l’aumento del prodotto interno lordo è stato moderato e, sopra tutto, inferiore a quanto era sembrato in precedenza. La spesa delle famiglie americane si mantiene ormai da mesi al di sopra del loro reddito disponibile: ne va di mezzo il risparmio, e simili situazioni di disinvestimento non durano mai a lungo. Il deficit commerciale, con il suo recente record, ha suonato un altro campanello d’allarme. Una situazione analoga è quella della Gran Bretagna, che esporta, appunto attraverso il suo deficit commerciale, quel poco di crescita che c’è.

Dall’Asia le notizie sono discordanti. La ripresa del Giappone appare fragile, perché nel sistema finanziario del Paese vi sono ancora veri e propri abissi. Se l’economia si muove, è solo perché il deficit pubblico è altissimo. Su questo fragile miglioramento giapponese, e sulla domanda americana di importazioni, poggia il consistente recupero del resto dell’Asia. Anche questo recupero ha esili basi. Una seria discesa di Wall Street, con la conseguente riduzione dell’import americano, sottrarrebbe molto gas alla crescita asiatica. Lo stesso farebbe una nuova crisi finanziaria regionale: e non la si può certo escludere, visto che le indispensabili riforme non sono state ancora fatte e le economie asiatiche, sotto questo aspetto, sono quasi allo stesso punto di due anni fa. Infine, se a Pechino dovessero decidere di svalutare lo yuan, le esportazioni del resto dell’Asia sarebbero spiazzate da quelle cinesi, rese più competitive dal cambio. Nessuna delle eventualità che ho elencate può essere respinta come impossibile o molto improbabile. Al contrario, si tratta di possibilità fin troppo concrete.

Resta solo l’Europa, anzi, Eurolandia, dove la decisione di ieri della Bce – lasciare invariati i tassi di riferimento – è stata accolta con un certo sollievo. I Paesi minori e la Francia stanno andando avanti piuttosto bene. La Germania e l’Italia invece sono appena agli inizi. I segnali dall’economia tedesca sono misti: all’ottimismo degli industriali, che aumenta, fa da contraltare il recente pacchetto di austerità del governo: come tutti i pacchetti di austerità, non avrà sull’economia un effetto stimolante (per usare un eufemismo). Quanto all’Italia, sembra che il rientro dal deficit pubblico stia procedendo più velocemente del previsto: il che corrisponde, sul piano della politica economica, alla linea terapeutica dei medici del Settecento, che prescrivevano generosi salassi per ogni malattia, inclusa l’anemia.

La speranza dell’economia mondiale è che l’Europa possa prendere il testimone dagli Stati Uniti, assorbire importazioni dal resto del mondo e trainarne la ripresa. E tutto ciò abbastanza in fretta da evitare che insorga un circolo vizioso di pessimismo per la contrazione della domanda e contrazione della domanda a causa del pessimismo. Se tutto andrà felicemente lo sapremo nel giro di uno o due mesi, non di più (ma attenzione, neanche di meno). In tempo comunque per le incognite, ancora tutt’altro che neutralizzate, del Baco del Millennio.


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Le parole magiche di Greenspan

di Paolo Brera

 

(Luglio 1999) Altro che abracadabra, magicabula o supercalifragilistichespiralidoso! le vere parole magiche oggi sono altre: per la precisione due: Restrizione Monetaria. È bastato che il 22 Greenspan le pronunciasse al Senato americano, e i risultati si sono fatti sentire subito in tutto il mondo. Il dollaro è sceso. Wall Street, che nell'ultimo decennio ha in genere più voglia di andar su che giù, ha iniziato un tuffo a capofitto stile Acapulco. E le Borse di tutto il mondo hanno seguito.

Che cosa ha detto Sua Altezza Monetaria Alan Greenspan, governatore della Federal Reserve americana, e perché quel che dice conta tanto? Al di là degli scherzi, mai come in questi ultimi tempi la prosperità degli Stati Uniti è dipesa dai tassi d'interesse, e Greenspan ha detto appunto che la Fed è pronta ad agire su di essi con la massima prontezza ed energia al minimo accenno di ripresa dell'inflazione.

Greenspan, certo, non ha detto che i tassi aumenteranno, ma solo che potrebbero (e dovrebbero) aumentare se l'inflazione ripartisse. Vedi caso, di inflazione vera e propria non c'è traccia negli Stati Uniti. Nessun problema allora? Magari! i mercati hanno lo stesso sentito freddo ai piedi. Un po' come il promemoria del monaco: ricordati, fratello, che dovrai morire: anche chi si sente magnificamente fa gli scongiuri. O vende le azioni, se è un operatore di Wall Street.

Un anno eccezionale, ha detto Greenspan, il 1999 dell'economia americana. Tanto buono che sono stati creati 1.250.000 posti di lavoro e l'economia sta crescendo al ritmo del 3,5-3,75 per cento. La Fed è addirittura più ottimista di Clinton, visto che l'amministrazione di Washington ha predetto un 3,2 per cento solamente. Per l'anno prossimo la Fed dice 2,5-3,0 per cento, contro una previsione governativa del 2,1 per cento.

Un anno buono, il 1999, seguito da un altro anno buono – ma del resto è quasi un decennio che gli anni sono anni buoni. Su che si regge, però, questa crescita rapida e non inflazionistica dell'economia Usa? O meglio ancora, su che cosa non si regge?

Non si regge, per prima cosa, su un grande aumento della produttività. La produttività per addetto cresce più rapidamente in Europa. Quanto al prodotto interno lordo, i tassi di crescita per abitante non sono affatto più alti di quelli della Francia o della Germania, la cui popolazione però non aumenta altrettanto in fretta. Quanto alla produttività sul luogo di lavoro, la stessa Italia si confronta bene con tutti gli altri Paesi, inclusi gli Stati Uniti. Solo che da noi c'è molta disoccupazione, cioè meno gente che produce.

La crescita americana non si regge neppure sulle esportazioni. Anzi, gli Stati Uniti sono dei veri alcoolizzati dell'import: non gli basta mai, e il deficit della loro bilancia dei pagamenti è enorme. Qualunque altro Paese sarebbe prestamente richiamato all'ordine da George Soros e dovrebbe intraprendere misure immediate per riequilibrare la bilancia esterna, con il sicuro effetto collaterale di strangolare la crescita. Ma gli Stati Uniti, quia sunt leo, non ne hanno bisogno. O almeno il resto del mondo non glielo ha mai chiesto, né è probabile che glielo chieda prima di qualche serio sfracello che faccia da promemoria sulla fondamentale legge dell'economia: ogni squilibrio prima o poi dovrà riequilibrarsi, e più profondo è lo squilibrio più dirompente sarà il riequilibrio.

L'economia americana cresce perché la domanda galoppa. Ma nella sua ascesa la domanda ha già bruciato il tasso di risparmio: le famiglie Usa oggi hanno un risparmio negativo, per fare acquisti consumano il capitale e si indebitano. Che aumentino i tassi d'interesse (ricordati, fratello, che dovrai morire…), e non sarà più così facile indebitarsi e mantenere l'attuale livello di spesa. Che cada Wall Street (e sta appunto calando) e la gente si sentirà meno ricca e taglierà i consumi. Che dall'estero smettano di finanziare la bilancia dei pagamenti, e il dollaro scenderà (sta già scendendo), col risultato di far risalire l'inflazione. Ma se l'inflazione riprende, la Fed alzerà i tassi d'interesse, e il giro riparte. Ecco i circoli viziosi che oggi si preannunciano. E tutto, abracadabra, magicabula, per quelle due paroline di Greenspan.


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Un coniglio di nome Compart

di Paolo Brera

 

(Giugno 1999) Tutto si potrà dire della finanza italiana, meno che sia noiosa. I continui colpi di scena – progetti di fusione, offerte pubbliche di acquisto, collocamenti, privatizzazioni… – riempiono le pagine della stampa e modulano la nostra quotidiana razione di onde hertziane dei telegiornali. Una banca seriosissima come Montepaschi può scoprire di avere una platea di fan che neanche Alanis Morrissette (o Telecom, se è per questo). Mediobanca viene data per morta e risorge come Lazzaro (senza interventi divini) per riplasmare una bella fetta del settore dei servizi finanziari e delle tlc a sud di Chiasso. Benetton infila i suoi indiscreti coloratissimi tentacoli un po' dappertutto. Insomma un festival, un carnevale, un happening.

Quando si scherza si scherza, ma le ragioni di fondo dietro i fuochi di artificio della finanza sono serissime. Il sistema italiano di corporate governance era ossificato da decenni: sugli spalti delle imprese quotate stavano per lo più grandi famiglie, enti parapubblici come le fondazioni bancarie, oppure emanazioni dirette dello Stato. Giù, nella pianura sottostante, lo sciabordio del parco buoi – gli azionisti piccoli e poco informati – e del recinto delle oche – i consumatori. Due categorie alle quali toccava sempre prendere o lasciare, senza alternative per il caso che lasciassero. In una con le dogane del nuovo mercato unico però sono caduti molti di quegli spalti, e sono comparse molte alternative per azionisti e consumatori, insieme a molte regole fin lì inedite. Da ciò l'urgenza di ristrutturare, sia sul piano finanziario che su quello industriale.

Quale sarà dunque la prossima grande vicenda che emozionerà la Borsa? Vi sono diversi candidati, ma il più papabile sembra essere la Compart.

La Compart era, agli inizi degli anni Novanta, il centro dell'impero bancarottiero di Raul Gardini e dei Ferruzzi. Al momento del redde rationem le banche creditrici dovettero accettare di convertire buona parte dei loro crediti – ormai piuttosto dubbi nel quantum e nell'an – in attività poco remunerative, e di divenire azioniste per un'altra parte. Regista di tutto Mediobanca, che attualmente controlla la società – direttamente o tramite la Spafid – per quasi un quinto.

Come sempre quando c'è di mezzo via Filodrammatici, la ristrutturazione del gruppo Compart è stata severa ed efficace. Delle 1200 società che consentivano a Gardini di imbrogliare le carte, centinaia sono state vendute, altre accorpate, altre ancora liquidate. Gli ultimi fuochi della ristrutturazione hanno visto la cessione, quest'anno, delle residue attività immobiliari e del ramo cementiero, venduto all'inglese Blue Circle. Le attività rimaste consistono essenzialmente di Montedison e di Fondiaria, l'assicuratrice fiorentina da sempre nel cuore di Enrico Cuccia. Entrambe sono ormai risanate. La Compart invece chiuderà in perdita anche il 1999.

I tempi tuttavia sembrano maturi perché le banche azioniste liquidino questo in in in (ingombrante investimento involontario) e rientrino dei loro quattro soldi (si fa per dire). Si può esser sicuri che Mediobanca si sta già dando d'attorno per individuare uno o (preferibilmente?) più acquirenti, onde creare una specie di "nocciolo duro" che cementi alcune alleanze. E potrebbe ben essere un passo in questa direzione (visto poi che si parla di cementare) il recente ingresso nell'azionariato Compart di Giampiero Pesenti.

Solo Dio e Cuccia sanno che cosa escogiterà Mediobanca, se manterrà unita Compart, magari fondendola con Montedison, oppure la farà a fette per dare Fondiaria a Generali e Montedison a qualcun altro. Ma la profezia è facile: a settembre od ottobre, se non prima, dal cappello a cilindro di Cuccia uscirà il solito stupefacente coniglio finanziario. Questa volta, il coniglio si chiamerà Compart.


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Mediobanca, meriti e demeriti del deus ex machina della finanza italiana

di Paolo Brera

 

(Giugno 1999) Erano stati troppo svelti a liquidarlo, l'ultranovantenne Richelieu della finanza italiana, al secolo Enrico Cuccia. All'inizio della primavera, quando il progetto di fusione fra Unicredit e Comit sembrava avesse Aquilone nelle vele, quasi tutti i commentatori avevano (appunto) commentato che ciò segnava la fine di Mediobanca e di un certo capitalismo italiano, giudicato deteriore. In realtà, la banca d'affari milanese aveva ancora moltissime frecce al suo arco, e nel corso della primavera le suddette frecce sono fioccate un po' da tutte le parti.

Una come è noto ha colpito Telecom, conquistata manu finantiaria dalla Olivetti, cioè da una cordata di imprenditori in prevalenza bresciani e nordestini sostenuta precisamente da Mediobanca. Questa azione era stata preceduta dalla riconquista delle Generali in spregio a Lazard. Negli ultimi giorni si parla dell'alleanza fra Comit e Banca Intesa, anche questa con la regia di sapete-bene-chi, che configura un'alleanza impensabile anche solo tre mesi fa: quella tra Enrico Cuccia e Giovanni Bazoli, tradizionalmente considerato espressione della cosiddetta "finanza cattolica" che con Mediobanca c'entrava come Visco con la semplificazione del fisco. I due si potevano ritenere, senza troppi sforzi di fantasia, avversari. Ma avversari capaci di stimarsi profondamente l'uno con l'altro. Proprio questa stima deve aver favorito l'accordo che si sta ora dispiegando, be', non proprio sotto i nostri occhi, ma nelle segrete stanze come è da sempre costume di Mediobanca.

La logica industriale dell'accordo è ineccepibile. Bazoli aveva già reso noto che secondo lui in Italia fra qualche anno ci saranno tre o quattro grandi gruppi di livello europeo, e che Banca Intesa (310 trilioni di lire di attivo) intendeva essere tra questi. E attenzione: il presidente di Banca Intesa aveva già detto anche che l'attuale dimensione del gruppo era sufficiente per operare con tranquillità in Italia, ma "per svolgere un ruolo primario e importante in Europa si stava lavorando ad ulteriori sviluppi". Eccoli qui, quei famosi "sviluppi": l'alleanza (in quale forma precisa ancora non si può dire) con quella fra le banche italiane che è più impegnata all'estero, e però anche quella forse meno radicata, purtroppo per lei, in un territorio specifico: un atout importante nelle attuali condizioni del settore.

Gli ultimi eventi sollecitano una riflessione sul ruolo di Mediobanca. La lettura della sua azione semplicemente in termini di mantenimento di una struttura di potere è sbagliata. È vero che via Filodrammatici si è sempre posta come obiettivo la difesa delle grandi famiglie finanziarie, con poca cura degli azionisti che non ne facevano parte. È vero però anche che quando i rampolli di queste grandi famiglie si mettevano nei pasticci, Mediobanca sapeva intervenire con la giusta dose di durezza – e ne sanno qualcosa Ligresti, i Ferruzzi e Pirelli. La "cura Mediobanca" per le imprese in difficoltà ha sempre comportato una metodica ricerca dell'efficienza, senza indulgenza per le incrostazioni di potere. La banca milanese salvava l'essenziale ma rivoluzionava l'organizzazione del business e le gerarchie aziendali.

La rifondazione della Montedison e in parte della controllante Compart, la vera e propria rinascita del gruppo Pirelli, la ripresa della Fondiaria sono altrettanti capitoli abbastazna luminosi di una futura storia delle ristrutturazioni aziendali in Italia. Gli azionisti di minoranza, pur senza essere mai stati in cima ai pensieri di Cuccia e dei suoi, hanno finito per beneficiarne la loro parte. Un giudizio storico sull'operato del Grande Vecchio di via Filodrammatici dovrà sicuramente tenerne conto.


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Olivetti va in porto con Telecom. Ma non è un porto tranquillo

di Paolo Brera

 

(Maggio 1999) Gli ha reso l'onore delle armi, Colaninno, e in mancanza di meglio Franco Bernabè, numero uno uscente di Telecom, se n'è accontentato. Dopo tre mesi di duello non proprio esente da colpi bassi, i due leader si sono sentiti per telefono nel weekend e lunedì si sono incontrati per definire il passaggio delle consegne. "In queste vicende non ci sono né vincitori, né vinti", ha mentito spudoratamente Colaninno, "e il passaggio delle responsabilità avverrà tra gentiluomini, in maniera amichevole". E in molti, in Italia, hanno tirato un sospiro di sollievo. La patria del diritto, come si sa, è anche la patria del rovescio, e la prospettiva di interminabili code avvocatizie alla vexatissima storia dell'Opas Olivetti su Telecom aveva tutto per sgomentare.

L'Opas ha insegnato molto. È stata la più grande mai svoltasi in Europa e forse nel mondo (dipende dal cambio euro-dollaro che si adotta per fare il calcolo). Mostra che il mercato azionario italiano oggi consente "cose! cose di fuoco!" che fino a ieri erano impensabili. È certo che nelle stanze dei finanzieri – aspiranti raider o possibili oggetti di Opa – oggi si stanno passando ai raggi X tutte le situazioni azionarie per scoprire i futuri colpi grossi. Le menti si stanno anche esercitando per individuare le modalità di correzione delle norme italiane sulle Opa, che si sono rivelate carenti sotto più di un aspetto.

Per la Olivetti, la conclusione favorevole dell'assalto a Telecom Italia apre un periodo del quale si può dire, a colpo sicuro, che sarà molto interessante. Bisognerà poi vedere se sarà interessante nel senso degli interessi degli azionisti o in quello dell'antica maledizione ebraica "Possa tu vivere in tempi interessanti!".

Non c'è dubbio che la situazione in atto sia fortemente squilibrata sul piano azionario e su quello finanziario. A possedere il 51,02 per cento di Telecom è la Tecnost, società quotata a piazza degli Affari e controllata da Olivetti al 96,68 per cento. La fusione fra Tecnost e Telecom, non certa ma con una probabilità assai prossima a 1, lascerà a Olivetti una quota della nuova impresa intorno al 26 per cento, non abbastanza alta da rendere di fatto incontendibile Tecnost. Ma la stessa Olivetti oggi è contendibile. L'attuale azionista di riferimento, una scatolotta lussemburghese di comodo chiamata Bell, controlla infatti solo il 13.8 per cento di Olivetti. "Olivetti ha un piano per costituire un insieme di azionisti che saranno di grande supporto ai progetti del management", ha detto Colaninno, e gli si può credere. Meno facile è credergli quando nega che sia in preparazione un patto con l'assistenza di Mediobanca. In ogni caso, ha detto ancora Colaninno, Olivetti non sarà "blindata" per renderla non scalabile. Anche se subito dopo la conclusione dell'Opas un autorevole (ma inconsulto) invito a intraprendere in fretta tale blindatura è venuto da un membro del governo, Claudio Burlando: "Ivrea", ha detto l'ex ministro dei Trasporti, "si deve dotare di un nucleo forte, stabile e italiano. È quindi auspicabile che si facciano avanti soggetti interessati a investire su Olivetti, perché questo darebbe stabilità all'azienda". E il sottosegretario alle Comunicazioni, Vincenzo Vita, si è premurato di aggiungere: "È fondamentale che Telecom rimanga tutta in mani italiane". Insomma, dal punto di vista del mercato, un passo avanti e uno indietro.

Problema principale di Colaninno, trovare i soldi e avviare un processo di graduale rientro dall'indebitamento che ha fatto scricchiolare le strutture finanziarie della società di Ivrea (25,5 miliardi di euro di debito previsti per fine giugno). A grandi linee, il suo piano è noto: dismissioni di asset non strategici, recupero di flussi di cassa attraverso tagli di personale e altri risparmi, e una grande fede nella dea Amaterasu, che non faccia risalire troppo presto i tassi d'interesse rasoterra di Eurolandia.

E le prime dismissioni si sono viste di già. A parte la prevista vendita di Oliman a Mannesmann, che porterà 7,6 miliardi di euro, Ivrea è anche zompata sul carro dell'Opa dell'olandese Gentronics su Wang Global. Olivetti aveva una quota del 18 per cento di Wang, risultante dalla cessione, due anni fa, della sua divisione grandi computer e software. Be', ora non ce l'ha più. Al suo posto ha, invece, un bel po' di liquidi targati Gentronics: 206 milioni di euro, di cui 18 di plusvalenza. Ma la strada da fare, per Colaninno, è ancora lunga.

E potrebbe venir buono, allora, il discorso intrecciato da Bernabè con Deutsche Telekom. Da Bonn, infatti, è giunto un messaggio da Herr Ron Sommer: Deutsche Telekom non considera archiviato il progetto della grande alleanza. Rimangiandosi quanto aveva affermato in precedenza, Dt si è detta pronta a trattare anche con la nuova Telecom olivettiana. E Colaninno? "non è contrario" a discutere tutte le opportunità. Sembra invece tramontata l'ipotesi di una cessione della pay tv Stream. Nel mondo politico italiano, infine, c'è preoccupazione per il possibile ingresso della Fininvest nell'affare Telecom.

I prossimi mesi vedranno il graduale districarsi di tutti questi nodi. Chi ha vinto senza troppe ombre resta la tedesca Mannesmann, che acquisisce il controllo di Omnitel e di Infostrada – più di sette milioni di abbonati la prima, due la seconda. Con questa acquisizione Mannesmann diventa il più forte fornitore privato di servizi di telefonia in Europa. Quanto al modo come potrà competere in Italia con un concorrente perfettamente informato di tutti i suoi progetti, be', questa è probabilmente una delle poche, pochissime ombre che rendono meno luminosa la società tedesca.


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Stock Option 2: il ritorno del Vampiro

di Nicola Sardi

 

(Maggio 1999) Avevamo parlato del mirato regalo che il signor Ministro Visco sembrava aver fatto alle società italiane e ai suoi dipendenti, a discapito dei dipendenti delle multinazionali estere aventi anche una sede italiana, i quali invece sono stati colpiti dagli effetti della nuova tassazione  (cfr. "Stock option: un regalo di Visco" in News&Views).

L'agevolazione delle stock option consentiva, ai datori di lavoro che volessero erogare aumenti o premiare i dipendenti meritevoli, di assegnare loro pacchetti di azioni della società medesima: il beneficio in capo all'azienda consisteva nel non dover versare i contributi che avrebbe invece dovuto tirar fuori in caso di aumento in busta paga; il beneficio per il dipendente consisteva invece nella pressoché totale esenzione da Irpef di tali erogazioni.

La disposizione era dunque generalmente criticata, sia per la sua spiccata propensione ad essere utilizzata per scopi elusivi, sia per la sua scarsa vocazione internazionalistica, anzi semmai eccessivamente protezionistica nei confronti delle imprese italiane a danno di quelle estere.

Ecco quindi che pareva quasi scontato che il Consiglio dei ministri introducesse ora un emendamento a tale agevolazione. Ma certo nessuno poteva prevedere gli effetti devastanti del correttivo effettivamente presentato!

Infatti, con il D. Lgs. n. 461/97 (quello che ha introdotto la riforma fiscale delle rendite finanziarie dal 1° luglio '98) viene modificato l'art. 2, comma primo, lettera d, riguardante l'agevolazione delle stock option, con il risultato però non solo di abolire l'agevolazione, disponendo il prelievo fiscale sugli integrali guadagni di valore dei nuovi titoli dati al dipendente, ma addirittura di assoggettarli a imposizione con effetto retroattivo al 1° luglio 1998!

Non è la prima volta che il signor Ministro Visco mette in atto, di fatto, una vera e propria trappola ai danni dei contribuenti: è recentemente successo sul fronte delle cartelle pazze, allorché un anno fa promise con dei comunicati stampa (privi ovviamente di alcun valore legale) ai poveri malcapitati destinatari di tali notifiche, una sospensione dei termini per presentare il ricorso; ad oggi però tali comunicati non sono stati tramutati in legge dello Stato, con la clamorosa conseguenza che le Commissioni Tributarie ora dichiarano tardivi i ricorsi allora presentati dai contribuenti nella più che legittima aspettativa di vedere introdotta la disposizione normativa.

Succede in concreto ancora sul fronte delle stock option, in quanto il Ministro prima attira sulla marmellata i contribuenti, introducendo un'esenzione assai appetibile, che sembra solo attendere di essere da loro divorata a pieno gusto e a sazietà… Poi, fatta fare la scorpacciata, ecco che però, inesorabilmente, fa scattare la trappola tesa!

E così non solo i dipendenti delle multinazionali aventi sede in Italia, ma ora anche tutti gli altri dipendenti delle società italiane vengono penalizzati dal Fisco, che si dimostra ancora una volta sempre più vorace e, direi, a questo punto, anche scorretto…

Ma quel che fa ancora più specie in questi due casi, pur di per sé già assai emblematici, è che il signor Ministro Visco sostiene pur sempre la correttezza del proprio operato di fronte alle aspre critiche: come ha dichiarato in occasione della prima trappola scattata per le cartelle pazze, che sono cioè i giudici a sbagliare e che quindi non introdurrà alcuna disposizione di legge in sanatoria, così siamo ancora certi che ora, per il caso delle stock option, affermerà che è solo colpa dei contribuenti che hanno abusato, oltre ogni misura, di un'agevolazione di per sé lodevolmente introdotta, costringendolo quindi a intervenire e negando comunque per il futuro qualsiasi possibile correttivo del correttivo!


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Telekom Italien?
Se abbiamo ancora un interesse nazionale, bisogna difenderlo. Anche a colpi di golden share

di Paolo Brera

 

(18 Aprile 1999) Le cifre danno le vertigini. Mettete insieme Deutsche Telekom e Telecom Italia e avrete un gigante con una capitalizzazione di Borsa di 180 miliardi di euro, 310.000 lavoratori (di cui 196.000 del consorzio tedesco), un fatturato di 65 miliardi (per tre quindi made in Germany), tentacoli in tutti i Paesi del mondo, e un potere di mercato non secondo ad alcuno. E finalmente, dicono alcuni, un'impresa italiana potrebbe competere ad armi pari con quelle di tutto il mondo. Leviamo i calici, allora, a quello che la Bild Zeitung ha chiamato un matrimonio di elefanti? Be'… no. Non proprio. Anzi, l'interesse nazionale (esiste ancora, no?) detta di non procedere sulla strada, per noi pericolosa, di una "Telekom Italien".

Sgomberiamo la discussione da quello che non c'entra. Chi vede male la progettata fusione non merita automaticamente l'accusa di xenofobia o di anti-germanesimo, né quella, più velata, di essere un po' uno sciocco, uno che ciarla tanto della necessità per le imprese italiane di divenire globali, ma poi vuol cacciar via l'impresa estera che vuole acquisire l'impresa italiana e farla globale. Non è con queste puerilità che si possono scansare tre constatazioni ovvie: uno, le telecomunicazioni sono un settore strategico per lo sviluppo economico; due, Telecom Italia possiede ancora un grosso potere monopolistico; tre, Deutsche Telekom è un'impresa pubblica controllata dal governo tedesco al 74 per cento. La conclusione è obbligata. Che senso ha esprimersi per la privatizzazione delle nostre imprese pubbliche se si è poi disposti a sopportare che diventino di proprietà pubblica altrui? Un'impresa privata tedesca andrebbe bene, e ancora di più se la sua guida fosse contendibile (cioè se l'impresa fosse obbligata a mettere sempre al primo posto gli interessi degli azionisti). Nelle imprese pubbliche invece comanda il governo, e qualunque governo estero è ancora meno sensibile all'opinione pubblica o al voto degli italiani di quanto non sia quello di Roma, il che è tutto dire.

Certo, la libera circolazione del capitale nell'area dell'euro è importante. Mi correggo, sarebbe importante, se già ci fosse. Per comprendere basta collegarsi con il sito Internet di Deutsche Telekom, che sta varando un aumento di capitale da realizzare prima dell'estate: chi è interessato ad avere maggiori informazioni deve riempire un formulario online che domanda, fra l'altro, se risiede in Germania. Se nel campo a ciò predisposto viene digitato un "no", compare una finestra di dialogo che in buon tedesco avvisa che non se ne fa niente. Provare per credere: la URL è http://www.telekom.de/untern/inv_relations/boerse/email/right.htm. Se invece uno bara e scrive "sì", i casi sono due: o si è inventato un indirizzo tedesco (al quale sarà inviato il materiale informativo…) oppure viene avvisato che i campi del formulario non sono stati riempiti correttamente. Insomma, non è previsto che all'aumento possa partecipare un non tedesco.

L'eventuale controllo estero del principale operatore in Italia di telecomunicazioni si presta a obiezioni ancora più gravi di quelle che suscitava l'Opa di Olivetti. La limitazione della concorrenza che si avrebbe se l'Opa andasse in porto è da ricollegare al fatto che Colaninno si troverebbe alla guida del numero uno delle telecomunicazioni conoscendo fin nei minimi dettagli la strategia del numero due, che a quel punto per di più sarebbe l'amica e sodale Mannesmann. Ma questo destino è pur sempre migliore di quello di una pura e semplice dominazione straniera, e bene ha fatto D'Alema a pronunciarsi con cautela e a chiedere qualche garanzia in cambio della rinuncia a bloccare subito tutto con la golden share. Se queste garanzie arriveranno, bene. In caso contrario… geh zurück, vade retro, Satana-Telekom!


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Mediobanca non è morta.
Però la finanza italiana è cambiata davvero

di Paolo Brera

 

(Marzo 1999) urobanca. Toccherà abituarsi a questo nome, perché la realtà che presto designerà – il behemoth bancario risultante dall'unione fra Unicredit e Comit – avrà tutte le carte in regola per fare parlare di sé: addirittura, se tutto filerà secondo i piani un Roe del 23 per cento nel 2002 (ora è al 13,3, ed è già tanto). Ma anche l'altra aggregazione "primaverile" prospettata (per l'appunto) domenica 21 marzo, quella fra San Paolo-Imi e Banca di Roma, ha i suoi bravi numeri, inclusa la benedizione della famiglia Agnelli e degli olandesi di Abn-Amro. A guastare l'ottimo paretiano di questa nuova tornata di merger in salsa di pomodoro c'è quasi solo lei, Mediobanca. Tutti i commenti infatti concordano che le due operazioni segnano la fine del suo dominio sulla finanza italiana.

Tutti i commenti, c'est à dire, meno quello che state leggendo. Non affrettiamoci a liquidare Enrico Cuccia. L'ultranovantenne Richelieu del capitalismo italiano ha ancora molte frecce al suo arco, a cominciare dalle partecipazioni chiave di cui continua a disporre nelle imprese più nobili dell'industria e della finanza. Certo, le due offerte sono avvenute senza consultarlo, suprema offesa, e se andranno in porto le due nuove megabanche controlleranno insieme il 50 per cento del patto di sindacato che governa Mediobanca, la quale – è stato osservato – è oggi "scalabile" come una banchetta qualsiasi. Certo, il presidente di Unicredito Italiano, Lucio Rondelli, non ha perso l'occasione di lanciare la sua frecciatina col lamentare che il sostegno di Mediobanca alla scalata di Olivetti a Telecom, di cui Unicredit è azionista stabile, è stato deciso senza di lui. Ed è certo, infine, che Giovanni Bazoli, Presidente di Banca Intesa, ha detto che il superamento di "questo centro di potere" (Mediobanca) è "positivo": "Da dieci anni ci siamo trovati più volte in una situazione non solo di disagio, ma anche di scontro, di necessità di difesa". Per chi non se ne fosse accorto.

Nessuna reazione da via Filodrammatici. Ma già, non fa parte dello stile Mediobanca rilasciare dichiarazioni ai media. Vedrete: fra un mese, due mesi, si verrà a sapere di un'altra operazione di ingegneria finanziaria patrocinata da Mediobanca, di sicuro meno eclatante delle due ultime, che recano un'altra targa, e meno di Olivetti-Telecom, ma comunque tale da fare le prime pagine dei giornali. Sapremo allora in quale misura è cambiato il panorama finanziario italiano.

Perché per cambiato è cambiato, e non se ne può dubitare. Fusioni e acquisizioni sono ormai all'ordine del giorno: è passato quasi inosservato, soverchiato dalle notizie "bancarie", il recente accordo fra Mediaset e il gruppo Kirch, così come lo scontro per il controllo di Gucci: ma in entrambi i casi si tratta di tempeste in un mondo industriale che, prima, si sarebbe detto più simile a una palude che a un vasto oceano. Nulla di simile a questi mutamenti così importanti e così concentrati nel tempo si era mai visto in precedenza.

E fioccano le prese di posizione, specie dalle banche. "L'offerta pubblica di scambio di Unicredit sulla Comit è un fatto positivo, perché crea valore": è quanto fa trapelare da Francoforte la Deutsche Bank, che partecipa sia a Unicredit che a Comit (come ospite incomodo, finora). Bazoli l'Arcangelo, per parte sua, ha affermato che in Italia ci saranno probabilmente tre o quattro grandi gruppi di livello europeo, e che Banca Intesa (310 trilioni di lire di attivo) sarà sicuramente tra questi. E attenzione: il presidente di Banca Intesa ha poi confermato che ritiene l'attuale dimensione del gruppo sufficiente per operare con tranquillità in Italia, ma "per svolgere un ruolo primario e importante in Europa stiamo lavorando ad ulteriori sviluppi". Prepariamoci a un altro progetto di merger, insomma, e ad una nuova tornata di intrattenimento finanziario.


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L'Italia dell'euro è anche l'Italia delle Opa

di Paolo Brera

 

(Marzo 1999) Un' Opa che va, un'Opa che viene, e altre ancora che di certo si stanno preparando nelle latebre della finanza. Rassegnamoci, ormai il mercato azionario italiano è cresciuto e le imprese si sono scoperte troppo piccole per competere nella nuova dimensione europea introdotta dall'euro: di qui il fioccare di fusioni acquisizioni e quant'altro cui assistiamo ormai da qualche mese. E si può stare tranquilli che ce ne saranno ancora molte altre nei prossimi mesi.

La madre di tutte le Opa – la sigla sta per "offerta pubblica di acquisto" – è sicuramente quella di Olivetti su Telecom, la più grande mai formulata in Europa. E anche una delle più controverse. Gli analisti sono concordi che Olivetti ha offerto troppo poco; i giuristi sospettano (e questo è il tenore di un ricorso contro l'Opa presentato da Telecom ai giudici) che la formulazione violi le norme in vigore.

Poco ispirata a fair play è stata la contromossa di Telecom, annunciata nei giorni scorsi, che consiste nella diluizione del capitale per rendere più difficile la vittoria di Olivetti. Ivrea ha subito presentato ricorso contro le misure proposte dai vertici dell'impresa telefonica perché, per la legge italiana, le società sotto Opa non possono intraprendere operazioni che modifichino sensibilmente i loro valori patrimoniali (e Bernabé avrebbe potuto fare più di così, per modificare le grandezze patrimoniali di Telecom, solo se se le fosse giocate ai dadi). Succede quindi anche in Italia quello che si vede ogni giorno negli Stati Uniti, dove non c'è Opa ostile senza ricorsi di opatore ed opato ai tribunali. Già, solo che i tribunali italiani hanno riflessi uno zinzino più lenti di quelli americani, e sui mercati finanziari l'incertezza è il Male assoluto. Per non parlare dell'effetto che fa la notizia (divulgata dall'Adn/Kronos) che la Tom Ponzi, una nota agenzia di investigazioni private italiane, sta indagando sulla Bell – la finanziaria lussemburghese che controlla l'Olivetti.

Al di là del folklore, il vero nodo è il confronto dei piani industriali. Peccato che la Olivetti sia stata piuttosto parca di indicazioni al riguardo, mentre Bernabé ha dovuto metter giù qualcosa in fretta e furia solo per parare l'Offerta. Quanto simili sveltine di pianificazione strategica si possano ritenere vincolanti una volta scongiurato il passaggio del controllo è materia di congetture. Se l'esperienza italiana degli ultimi duemila anni è qualche ausilio, ben poco.

Nel frattempo hanno ricevuto una mezza conferma, travestita da smentita, le voci secondo cui Unicredit penserebbe a un'alleanza-fusione-acquisizione con la Banca Commerciale. Per saperne di più ci vorrà un po' di pazienza, ma intanto l'idea ha già fatto splash. Un industriale del calibro di Giampiero Pesenti, presidente di Italmobiliare, ha detto che il merger "dovrà essere accuratamente esaminato alla luce di un piano industriale che faccia vedere la convenienza effettiva a farlo: dal punto di vista della massa critica la convenienza ci sarebbe senz'altro". E la Comit? Si è affrettata a convocare un incontro con la Banca di Roma, anche se tutti sono convinti che l'incontro servirà solo a prendere atto del definitivo tramonto dell'ipotesi di aggregazione con la banca romana.

Il migliore commento alle voci su Unicredit-Comit è venuto da Giovanni Merlini, presidente della Compagnia di San Paolo, il quale ha dichiarato alla Stampa che il rimescolamento di carte nel settore del credito è sì un segno di crescita, ma racchiude anche diversi pericoli: "Questo sistema bancario - rigido, protetto e chiuso dalle origini - si trova di colpo esposto ai venti di un mercato internazionale in grande effervescenza. Potrebbe non sopportare il confronto con sistemi dove la concorrenza è cominciata prima". Ben detto! e dunque valga qui da conclusione.


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L'Asia s'è desta. Buone notizie, purché durino

di Paolo Brera

 

(Marzo 1999) La rimonta delle Borse asiatiche, negli ultimi tempi, è stata davvero spettacolare. In marzo quasi ogni seduta ha portato notizie di aumenti dei corsi azionari a Tokyo, Hongkong, Seul, Singapore e Taipei. Gli indici hanno scalato con orgogliosa sicurezza le altezze dalle quali erano discesi disfatti e senza speranza. Può darsi che vi sia, nelle prossime settimane, qualche ripensamento "tecnico", ma tutto sommato è ormai possibile dire che siamo di fronte all'inizio della ripresa.

O meglio, della riscossa, visto che la parola "ripresa" ha un significato economico preciso e di quello, per ora, si vede ben poco. Fra i Paesi dell'Estremo Oriente solo la Cina e Taiwan mostrano tassi di crescita positivi (intorno al 7 per cento la prima, circa la metà la seconda); la Corea del Sud, a quanto sembra, tornerà a crescere un po' quest'anno, ma i pareri non sono del tutto concordi nemmeno su questo.

Il cammino fatto, comunque, è impressionante. Tutti i Paesi dell'area mostrano una bilancia commerciale in avanzo; solo Hongkong e la Malaysia restano in deficit nella bilancia dei pagamenti correnti. La scarsità di capitale sembra un problema in via di soluzione.

Grandi passi in avanti ci sono stati anche nel sistema finanziario: la ristrutturazione delle posizioni debitorie delle grandi imprese ha tolto di mezzo alcuni fra i maggiori rischi, mentre nel sistema bancario – a passo di lumaca, questo sì – sono state sistemate le situazioni più tese, anche liquidando le banche troppo malridotte. Il vero punto debole, che è obblligo ricordare, rimane tuttora la stagnazione, che crea tensioni sociali inedite per quei Paesi e potrebbe a un certo punto vanificare tutti gli sforzi di riequilibrio fin qui compiuti.

Il fatto più saliente del mese di marzo, in ogni modo, è lo sblocco della situazione giapponese. Il Giappone ha attraversato una stagnazione di quasi due anni che ha peggiorato le cose per tutti gli altri, in primo luogo per i Paesi dell'Estremo Oriente che dipendono dall'Arcipelago come mercato di sbocco. La deflazione e lo scoraggiamento del Giappone si trasmettevano in modo automatico, e grave, al resto dell'Asia.

Poi, improvviso, lo scioglimento. Sarà stato l'ennesimo pacchetto di misure di rilancio in discussione alla Dieta di Tokyo, dove si parla di 770.000 posti di lavoro da creare; o all'opposto il piano reso noto da un paio di grandi imprese per ridimensionare gli organici, argomento finora tabù per tutti; o ancora la richiesta di un intervento dello Stato, formulata da alcune banche in grave difficoltà, che sembra aver posto le premesse per il risanamento – sia quello che sia, gli operatori si sono convinti che il punto più basso della crisi sia stato ormai raggiunto. Di qui la corsa agli acquisti in Borsa e l'ascesa del Nikkei.

E di qui, anche, l'ottimismo che si è diffuso nel resto dell'Asia, alimentato poi da dichiarazioni molto rassicuranti della dirigenza cinese, che sulla politica economica internazionale si gioca la partita decisiva per la sua credibilità globale. Il recupero di fiducia in Asia contribuisce a stabilizzare il sistema finanziario mondiale. Insomma, se l'Oriente torna a essere rosa, l'alba è vicina.

E anche noi, qui in Europa, possiamo tornare a un maggiore ottimismo. Fra qualche mese anche la ripresa delle economie asiatiche, e non solo delle Borse locali, potrà fare da battistrada alla ripresa complessiva. L'Europa stava scivolando pian piano nella stagnazione (l'Italia addirittura in recessione): ora probabilmente questa scivolata si arresterà. Buone notizie, insomma. E santo Cielo, se ne sentiva proprio il bisogno.


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Effervescenza in banca.
Attendiamoci importanti novità nel giro di pochi mesi

di Paolo Brera

 

(Marzo 1999) A qualche giorno di distanza dall'annuncio dell'ingresso di Abn Amro nella Banca di Roma, qualche riflessione meno particolare e più generale è possibile. L'evento infatti rispecchia un'evoluzione non trascurabile del sistema bancario italiano.

Cominciamo da un atto di astrazione, una sorta di epoché da applicare non già alla riflessione filosofica, ma a quella finanziaria. Se facciamo un passo indietro e guardiamo freddamente quanto è avvenuto, ci rendiamo conto che il vero protagonista non è stata la Banca di Roma. No, la vera star in tutta la vicenda è stata la Banca Antoniana Popolare Veneta, che si è confermata un'impresa molto dinamica in grado di trainare tutto il mondo creditizio del Nord est. L'acquisto della Bna e il possibile ingresso degli olandesi anche nel suo capitale segna un grosso passo in avanti per l'Antonveneta. Il boccone tuttavia è veramente grosso, e ci sono da aspettarsi problemi in fase di integrazione fra le due banche. Sebbene la cosa non abbia ricevuto grande pubblicità, infatti, la banca padovana ha già avuto diversi problemi con gli sportelli acquisiti a Milano (ex Banca di Roma).

La Banca di Roma, con la cessione di Bna e l'accordo con Abn Amro, risolleva un po' il suo stato patrimoniale – più capitale proprio e meno debiti – e incassa anche una discreta plusvalenza. Resta la debolezza di fondo: una rete di sportelli troppo abituati ad operare in condizioni di monopolio, un personale più ministeriale che concorrenziale (e scusate le rime!), una pesante eredità di incagli e sofferenze che viene dagli anni quando comandava Andreotti e gli piaceva il credito facile (per i suoi protetti, beninteso). Abn Amro avrà poca pazienza per queste situazioni, però non è detto che riesca a far pendere i piatti della bilancia dalla parte giusta.

Infine, Comit. La bella signorina di piazza della Scala non riesce proprio ad andare sposa a nessuno. Ma sta poi così male da zitella? Non è detto… specie se l'alternativa è essere mal maritata. Comit resta la più internazionale delle banche italiane. La sua vera mezzamela sarebbe una grande banca locale, come per esempio la Popolare di Novara, la Milano, la Lodi o la Commercio e Industria: quelle, insomma, con un forte radicamento nel Nord Ovest e un buon controllo del territorio di riferimento. Il connubio con la Banca di Roma – il cosiddetto progetto Superbin – sarebbe stato, probabilmente, quello che la parola significa in inglese, cioè un super-bidone della spazzatura. C'è un abisso fra l'efficienza aziendale della Comit e quella della Banca di Roma. Ora a piazza della Scala hanno più agio di guardarsi intorno.

Ma esaurito il discorso sulle banche toccate dalle ultime vicende, resta quello sulle banche italiane nel loro complesso, dove c'è in effetti qualche novità. Molte di esse stanno colmando rapidamente il loro ritardo storico, in termini di metodi e di cultura, nei confronti delle concorrenti europee. I dati sulla redditività parlano chiaro, in certi casi il miglioramento balza all'occhio.

Fa pur sempre difetto la dimensione aziendale. Ma anche qui bisogna rilevare che ultimamente da fuori d'Italia sono venuti segnali inusuali: un recente studio della Goldman Sachs, per esempio, ha trovato del valore nascosto nelle banche regionali del Paese, che l'interpretazione più in auge dichiara terribilmente sottodimensionate. Punta nella medesima direzione anche il recente rafforzamento dell'Iccrea, la holding delle 570 banche di credito cooperativo – veri nanetti, ma operosi come quelli di Biancaneve.

Di certo c'è questo: che all'interno del settore bancario, nei prossimi mesi (non anni, proprio mesi) assisteremo a trasformazioni profonde. Alcune di queste trasformazioni seguiranno linee già prevedibili – fusioni, acquisizioni – altre esploreranno nuovi modi di fare banca. E' consentito un moderato ottimismo sui risultati finali di questa effervescenza.


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Olivetti, la parola è al mercato

di Paolo Brera

 

(Marzo 1999) E adesso, come si dice, la parola è al mercato. Che ieri ha apprezzato moltissimo tanto le Olivetti che le Telecom, in un ecumenico embrassons-nous che ha unito acquirente e acquirendo sotto il segno della Plusvalenza. Già, perché almeno questo è certo: entrambe le società coinvolte nell'Opa più calda d'Europa sono state, per chi ne ha comprato le azioni, ottimi affari. Diciotto mesi fa le Olivetti ordinarie valevano 0,491 euro; oggi rasentano i 3, come dire più 500 per cento. Le Telecom Italia hanno avuto un minimo biennale di 4,4, ma adesso si scambiano intorno al prezzo dell'Opa, 10 euro.

Il che vuol dire, a ben vedere, che così com'è l'Opa può già dirsi fallita. La Olivetti infatti non propone un pagamento cash, ma un bouquet fatto di 6 euro in contanti, 2,6 di valore nominale di obbligazioni emesse da una controllata olandese (Tecnost International NV), e di mezza azione ordinaria Tecnost riveniente da un aumento di capitale. In generale, vale (fino a prova contraria) il vecchio consiglio "prendi i soldi e scappa". Una persona sensata si deve dunque domandare se queste azioni ed obbligazioni siano, al prezzo dato, veramente più pregiate del contante.

L'è düra, come dicono dalle nostre parti. La logica delle Soac (Sfacciate Offerte di Acquisizione a Credito) comporta che Telecom sia fusa con Tecnost subito dopo l'esito vittorioso dell'offerta, in modo che sia il cash flow della società telefonica a ripagare le obbligazioni che sono servite ad acquisirla. Già, ma che cosa garantisce che Telecom, una volta oberata di 34,6 miliardi di euro di debiti in più, sarà ancora profittevole?

La risposta che viene da Ivrea si impernia sul carisma di Colaninno. Signori miei, dice il manager mantovano che da due anni scarsi guida la Olivetti, guardate che cosa abbiamo saputo fare in una società che quando l'abbiamo presa in mano era pronta per l'obitorio! Dismissioni, taglio di rami secchi, sagace gestione di alcuni business d'avvenire: lasciateci metter le mani su Telecom Italia, dove invece contano ancora molto i condizionamenti politici e i dipendenti sul lavoro dormono il placido sonno del monopolista pubblico, e vedrete! (dice sempre Colaninno)

Sì, però si può anche notare che buona parte dei grandi risultati di Telecom Italia dipende proprio dal suo ruolo di monopolista. Certo, la domanda di servizi di telefonia è in pieno boom e ci rimarrà per diverso tempo ancora, ma anche il numero dei concorrenti sta aumentando, e alcuni sono ben agguerriti. Fra tre anni il settore telefonico potrebbe aver fatto la fine di quello dei computer: prezzi sempre più bassi e margini sempre più sottili. Di più: oggi nei bilanci aziendali gli oneri finanziari sono poca cosa, perché i tassi d'interesse uno quasi non si accorge di pagarli: ma se dovessero tornare su? e parliamoci chiaro, lo faranno certamente, nei prossimi cinque anni. C'è voluto di meno perché si sgretolasse l'Impero Austro-ungarico.

Per parare l'offerta, Bernabé–che-uno-stupido-non-è (scusate l'endecasillabo) può fare alcune cose e non può farne altre. Non è certo che possa portare a termine la fusione di Telecom con la controllata Tim, che diluirebbe il capitale e renderebbe proibitiva l'acquisizione – ma può darsi che possa, visto che la decisione è stata fatta quando l'Opa Olivetti, a norma di legge, non era ancora perfezionata. Molte altre delle mosse possibili richiedono l'approvazione previa da parte del 30 per cento del capitale Telecom, riunito in assemblea. Ma c'è un intero ordine di azioni che scaverebbe letteralmente la terra sotto i piedi dell'avversario: un intervento deciso sull'efficienza aziendale, sfrondando rami secchi, mandando in quiescenza i dirigenti di troppo e cacciando i dipendenti neghittosi con una spada fiammeggiante. A questo punto diverrebbe difficile credere in un sostanziale miglioramento della gestione con una leadership diversa.

Potrà farlo Bernabé? Be', all'Eni ci è andato molto vicino. Anche lì teneva le redini per nomina politica – non nascondiamoci dietro un dito – ma ha alquanto ben operato. Riuscirà a essere più credibile di Colaninno? In attesa di saperlo per certo, due milioni di azionisti Telecom passeranno un bel po' del loro tempo con le dita sulla calcolatrice per farsene, almeno, un'idea operativa.


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Stock Option, un regalo di Visco (ma solo per pochi)

di Nicola Sardi

 

(Marzo 1999) Nel '98 ben trenta società italiane quotate, tra cui Eni, Fiat, Mediaset e Telecom, hanno introdotto un piano d'incentivazione basato sulle stock option. Molte altre hanno intenzione di farlo e analoghe operazioni all'inizio del corrente anno vengono portate avanti anche da società non quotate e, addirittura, da grosse cooperative.

Eppure, fino al 1997 questo sistema d'incentivazione, d'origine tipicamente americana, era di fatto inesistente in Italia. Ma ecco che il Ministro Visco, con decorrenza '98, pensa bene d'introdurre una vantaggiosa disposizione fiscale con il D.Lgs. 2.9.97 n. 314, che stabilisce l'intassabilità dei piani di stock option che comportino l'assegnazione ai dipendenti di azioni di nuove emissione!

La legge stabilisce che il valore delle azioni nuove sottoscritte da un dipendente a seguito di un'assegnazione gratuita riferibile all'art. 2349 del codice civile, o di una sottoscrizione a pagamento riservata ai dipendenti riferibile all'art. 2441 ultimo comma del codice civile, non concorrano a formare il reddito del dipendente stesso.

Normalmente, se una società vuole premiare dei dipendenti erogando loro un compenso extra, questo è deducibile dal reddito della società stessa, con l'aggiunta però degli oneri contributivi calcolati sul compenso pagato. Il compenso poi diventa reddito del dipendente e subisce l'aliquota progressiva Irpef.

Con il sistema nuovo italiano d'incentivazione basato sulle stock option succede invece che il pagamento del compenso aggiuntivo dato sotto forma di azioni, per la società non è, questo è vero, deducibile dal reddito Irpeg, ma non subisce l'aggiunta di oneri contributivi (46%), non essendo assimilabile alla retribuzione, mentre per il dipendente si realizza il notevole vantaggio di non imporgli alcuna tassazione, essendo tale assegnazione considerata di fatto un premio esente da imposte!

Ecco come si spiega il successo tutto italiano: si tratta in concreto di una disposizione di tipo elusivo, che consente risparmi d'imposta per i dipendenti e contributivi per le società; la norma si può prestare anche a probabili abusi, se utilizzata dalle società non quotate e dalle cooperative, per le quali i valori in gioco del patrimonio sono notoriamente assai meno trasparenti…

Come mai allora il Ministro Visco ha voluto una disposizione del genere, che ha dichiarato per di più applicabile anche alle nuove azioni di società estere equivalenti a quelle emesse in Italia per i dipendenti?

C'è infatti il rovescio della medaglia: si tratta di un introito certo che l'Erario ha portato a casa entro il '98 e introiterà anche negli anni successivi, a fronte di uno sconto incerto, nel senso che non è preventivabile, sulle operazioni nuove di stock option che vengono e verranno fatte.

Spieghiamo: si parla di tutte le azioni di vecchia emissione, in possesso di dipendenti di società multinazionali per lo più americane con sede anche in Italia, che con la nuova normativa vengono considerate imponibili e, quindi, tassate, in capo al dipendente alla fonte, tramite la società avente sede in Italia in qualità di sostituto d'imposta.

Difatti, la nuova legge ha precisato che il nuovo sistema si applica solo alle nuove azioni, chiarendo che per quelle già circolanti si deve applicare imposizione Irpef con riferimento al valore in natura che il dipendente ritrae; tale valore è determinato dalla differenza del costo specifico dell'azione sostenuto dal datore di lavoro (criterio che valeva fino al 31.12.97), notoriamente basso, e il valore normale, cioè di negoziazione, che l'azione ha sui mercati regolamentati, sensibilmente più elevato rispetto a quello storico del costo specifico.

Ecco quindi che, alla fine del '98, le società sedi italiane di multinazionali estere hanno dovuto calcolare questa differenza ingente di valore maturata sulle azioni che risultavano in portafoglio ai loro dipendenti e assoggettarlo, come reddito in natura, all'Irpef tramite conguaglio di fine anno in cedolino… Con la conseguenza che diversi dipendenti si sono trovati addirittura a debito verso il loro datore di lavoro, in quanto l'Irpef trattenuta aveva integralmente eroso le retribuzioni nette di dicembre!


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Euro debole, euro forte:
ma non è una questione di virilità

di Paolo Brera

 

(Febbraio 1999) Ma insomma, questo benedetto euro! Apre l'anno in frizzante salita nei confronti del dollaro, e tutti i commentatori giù a commentare che sì, è nato finalmente il contraltare del biglietto verde. Appena due mesi dopo, eccolo a segnare un minimo storico: ieri 1,1 dollari per euro, e vi faccio grazia delle ultime quotazioni di Wall Street se no i tipografi non vanno più a dormire. E noi qui confusi, a domandarci se la nostra diletta moneta è figlia legittima di messer Marco (tedesco) e di monna Europa oppure no.

Tutto quello che riguarda il denaro è cosa della più grande serietà, perciò la nostra perplessità non è frivola. Sgomberiamo però il campo dalle troppe stupidaggini che spesso tocca di sentire: il signor Euro non è un signore e perciò la sua maggiore o minor forza non rispecchia il suo grado di virilità. Non è che i mercati valutari insultino l'Europa quando ne cedono la moneta a vil prezzo, né è detto che avere una moneta debole sia obbligatoriamente peggio che avere una moneta forte. Dipende. Il Giappone del dopoguerra ha costruito la sua ascesa industriale sulla debolezza dello yen, e l'ha consolidata quando lo yen si è rafforzato. Il dollaro, negli ultimi vent'anni, è stato più spesso sotto- che sopravvalutato, eppure gli Stati Uniti sono sempre rimasti la potenza egemone.

Il valore di una moneta dipende direttamente dalla domanda e dall'offerta che si incontrano sul mercato, ma queste a loro volta dipendono da un bel po' di fattori. Uno di essi, ed è quello che si trova all'origine di tanti fraintendimenti, è certamente il rispetto che induce il Paese emittente. Pesano poi anche le valutazioni sulle prospettive future dell'economia che usa la moneta come mezzo di scambio e, last but not least, le circostanze di mercato di breve periodo.

Con l'avvento dell'euro il sistema monetario mondiale si è semplificato. Oggi come oggi le valute che contano davvero sono solo cinque: oltre alla nostra il dollaro, lo yen, il franco svizzero e la sterlina inglese: una sesta, lo yuan cinese, si aggiungerà a questo Rotary valutario nel giro di una decina d'anni. Le cinque grandi sono tali perché sono usate in molti scambi commerciali e, sopra tutto, perché in esse sono denominati i flussi finanziari più cospicui.

Dei due fattori che fanno grande una valuta il primo favorisce il dollaro, il secondo l'euro. Le altre tre monete sono sotto ogni aspetto assai meno importanti. Alla lunga, la moneta in cui sono espressi più strumenti finanziari diverrà il riferimento mondiale.

L'attuale debolezza dell'euro sta, paradossalmente, rinsaldando la superiorità finanziaria della moneta europea. E' infatti vantaggioso indebitarsi in euro, perché i tassi di interesse sono relativamente bassi. Alla lunga, quindi, l'euro accrescerà ancora il proprio peso nelle transazioni finanziarie.

Nell'immediato, tuttavia, pesano le considerazioni di prestigio (gli Stati Uniti crescono, l'Europa si trascina un po') e anche le necessità di diversificazione dei grandissimi operatori – le banche centrali, i fondi, le tesorerie delle imprese globali. Una volta detenere strumenti finanziari in lire o in marchi erano due cose diverse, oggi è la stessa cosa: per ridurre il rischio bisogna diversificare uscendo dall'euro ed entrando in qualche altra valuta. Tale effetto, però, è di breve durata. L'euro è destinato ad essere una moneta forte perché ha alle spalle un'economia grande e aperta e perché le politiche monetarie e fiscali del nostro continente sono di natura tale da rafforzarne la stabilità. Questa è la realtà sottostante. Il resto, e scusate se qui bisogna proprio usare una parola inconsueta, è solo epifenomeno. Tratteniamoci, dunque: decisamente, non è ancora il momento di ammucchiare dollari sotto il materasso.


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Olivetti-Telecom: prepariamoci a qualche settimana di intrattenimento finanziario

di Paolo Brera

 

(Febbraio 1999) Requiem per l'offerta pubblica di acquisto di Olivetti su Telecom, nata nell'oscurità e all'oscurità ritornata dopo la decisione della Consob – l'ente italiano per il controllo della Borsa – di vietarne il proseguimento. Requiem per una figlia dell'oscurità che, nei suoi brevi giorni, l'oscurità ha alquanto accresciuto. "Una decisione davvero limpida, davvero al di sopra di ogni passione capitalistica o anticapitalistica": così ha commentato lo stop all'Opa il commissario dell'Authority per le telecomunicazioni, Giuseppe Gargani, incontrando i giornalisti a Napoli: "Era proprio una scalata. E le scalate in genere non sono una cosa buona". E dire che invece alcuni pensavano che la contendibilità del controllo societario fosse una condizione necessaria per un corretto funzionamento dei mercati azionari. Illusione?

Mettiamo le mani avanti, vederci del tutto chiaro è impossibile. Si può, tuttavia, dare qualche elemento che aiuti la comprensione. Fino all'altro ieri, sembrava che le cose stessero così. Una società già pubblica, monopolista nel suo non trascurabile campo di attività, dominata da un "nucleo duro" di azionisti alla francese che sarà stato anche duro durissimo ma era, come dire, un po' troppo esiguo (a voler contare le azioni), sta per essere del tutto abbandonata dallo Stato italiano, in procinto di vendere l'ultimo 3 per cento di suo proprietà. E questa è Telecom Italia. Spunta dal nulla una public company dominata da una coalizione di piccoli e medi imprenditori del Nord, anche loro detentori di una quota risibile del capitale: il 15 per cento, attraverso una holding lussemburghese che siccome doveva occuparsi di telefonia ha rubato il nome alla Bell (che fantasia!). E questa è l'Olivetti.

Olivetti annuncia un complesso marchingegno finanziario in virtù del quale, nullo interveniente deo, si ritroverà ad aver ceduto le sue attività nel settore telefonico e ad aver acquisito quelle di Telecom Italia, onuste, peraltro, di 55,4 miliardi di franchi di debiti causati proprio dalla scalata. Consulente dell'operazione, ma to', è Mediobanca.

Molti dubbi vengono espressi sulla sostanza di questa manovra, ma intanto i titoli interessati in Borsa fanno faville (tutte rientrate, ieri). Il presidente del Consiglio (primo ministro) italiano Massimo D'Alema si dichiara neutrale, pur complimentandosi per il coraggio di Olivetti. Tra le righe si legge un bel po' di compiacimento. Conclusione: il governo italiano vuole rimettere le mani su Telecom per interposta cordata di imprenditori amici. Statalismo? No, peggio ancora: puro e semplice spirito di partito. A Opa conclusa infatti sarebbero stati i democratici di sinistra (ex comunisti) ad acquisire influenza sulla futura impresa telefonica Olicom o Telecometti o come-vorrete-voi. Fra i Grandi della Bell che controlla Olivetti che controlla Tecnost che dovrebbe controllare Telecom Italia, infatti, c'è anche il "finanziere rosso" Francesco Micheli. E altri nomi sono quasi altrettanto significativi.

Poi arriva la Consob e dice che non si può fare. E qui le cose si ingarbugliano. Si vede che anche Bernabé, boss di Telecom ed ex dell'Eni, che nell'Ente Nazionale Idrocarburi si è fatto molti nemici mettendo a soqquadro gli organigrammi, ha anche molti amici. Prima fra tutti, la famiglia Agnelli. Ma anche numerosi politici più o meno interni allo schieramento governativo. E chi pensava che questo fosse "il primo segnale di un mercato azionario che finalmente si prepara a diventare più europeo", come ha scritto il Corriere della Sera, è bell'e servito. Siamo ancora a bagno nella più deteriore politicaglia.

E adesso? Colaninno, che quando addenta è peggio di un pit-bull, ha detto che non lascerà perdere. Le sale dove si riuniscono le varie squadre finanziarie e avvocatizie degli opposti campi stanno fumando per il surriscaldamento dei cervelli in esse contenuti. Olivetti prepara la sua contromossa, chissà quale: pochi giorni di tempo ma molte decine di miliardi di franchi in gioco. Telecom Italia starà febbrilmente approntando trincee. Non è finita qui. Abbiamo davanti alcune settimane di intrattenimento finanziario su tutti i canali e tutti i media. Vedrete, sarà meglio di Arma Letale.


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Olivetti, Telecom Italia, e l'Antitrust

di Paolo Brera

 

(Febbraio 1999) Diavolo di un Colaninno, non gli bastava di aver rimesso in sesto la Olivetti, e neppure di averne di fatto acquisito il controllo con un'operazione di strafinanza quale neppure il suo mentore De Benedetti! No, ora vuole mettere le mani su uno dei grandi ex-monopolisti europei delle telecomunicazioni, la colossale Telecom Italia. Due cifre: prima del forsennato aumento dei corsi azionari di ieri, Telecom valeva 58,8 miliardi di euro, e Olivetti 8,9. Lo gnomo che trangugia il titano, se andrà in porto. Ma ci andrà?

Intanto ieri l'interesse di Olivetti per Telecom Italia è stato confermato, dando ragione al tam tam che da alcuni giorni risuonava a piazza degli Affari e dintorni. Le modalità della conferma sono state peculiari (come direbbe un inglese). La Olivetti, infatti, non ha tenuto ieri il preannunciato consiglio di amministrazione, ma in un primo tempo ha annunciato che ne terrà uno domenica per deliberare, "fra l'altro", "su un'operazione strategica e finanziaria di grande portata". Avete letto "Telecom Italia" nella frase che precede? No? Be', infatti non c'è. E' stato necessario un secondo comunicato per diradare un po' della fitta nebbia: e finalmente Ivrea ha precisato, "per trasparenza", "che l'operazione strategica menzionata nella precedente comunicazione riguarda la Telecom Spa". Trasparenza, dice. Chi non ha la memoria corta ricorderà una precedente recisa smentita, alla faccia delle regole di Borsa.

Quisquilie, pinzillacchere, come direbbe Totò: nulla che possa sgonfiare le vele spiegate della caravella eboracense di Colaninno. Ieri sono stati diffusi i risultati 1998 di Omnitel, la controllata d'oro di Olivetti: fatturato 2,3 miliardi di euro di fronte a 0,95 l'anno prima; utile 403 milioni, sempre di euro, contro una perdita di 72. Vento in poppa dunque, e lo stesso per Mannesmann, che da Francoforte parla di un raddoppio dell'utile (630 milioni di euro) e di un dividendo di un buon 20 per cento più generoso dell'ultimo. Ma i tedeschi hanno smentito di aver avuto contatti con l'Authority italiana delle telecomunicazioni, il che mal si concilia con le voci circolate nei giorni scorsi, secondo cui Olivetti avrebbe presto ceduto a Mannesmann l'intera Omnitel per non incorrere nei fulmini dell'Antitrust riguardo a Telecom Italia. Ieri è stato comunque annunciato che la casa tedesca ha completato l'acquisto della sua parte della Oliman, la sub-holding che controlla Omnitel. Mannesmann detiene oggi il 49,9%, come previsto dal contratto stipulato a suo tempo con Olivetti. La nota di Ivrea che informa della cessione spiega che per l'ultima tranche (12,4%) Olivetti ha incassato 647,4 miliardi di lire, ma che per il gruppo l'effetto finanziario complessivo della transazione è stato di oltre 700 miliardi di lire, con una plusvalenza nel consolidato di circa 500 miliardi nell'esercizio 1999.

Cifre in libertà, come si vede, e quando uno si figura tutta questa liquidità (a pensar male si fa peccato ma s'imbrocca sempre, come direbbe Giulio Andreotti) la mente corre ai possibili usi per cui viene ammassata. E qualcosa Olivetti dovrà pur farne. Ma ci si domanda in base a quale miracolo di ingegneria finanziaria si potrà evitare che la commissione Antitrust ponga il veto all'acquisizione del N. 1 della telefonia italiana da parte del N. 2, quando i numeri successivi – in termini di fatturato – sono visibili solo con un buon microscopio. E se non si muoveranno a livello romano, lo faranno a livello europeo. Il mercato italiano della telefonia cellulare è il secondo in Europa e il terzo al mondo: difficile pensare che possa passare da un monopolio pubblico a uno privato con un breve intermezzo di duopolio altamente collusivo. Come direbbe un francese (o anche un belga di Bruxelles): pas question, ça ne se fait pas, monsieur Colaninno.


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Politici e clandestini

di Alessandra Nannei

 

(Febbraio ’99) L’atteggiamento della nostra classe politica nei confronti dell’immigrazione clandestina sta leggermente cambiando, rispetto al "buonismo" assoluto che l’ha caratterizzata sino a pochi giorni fa.

Non si parla più di requisire le seconde case o gli alberghi nei luoghi di villeggiatura, mentre i politici che lanciano accuse di egoismo o che ripetono sino alla noia che "si tratta di un fenomeno inevitabile" si fanno via via più rari.

All’articolo strappalacrime di Fabrizio Gatti sul Corriere della Sera del 28 gennaio (Io clandestino, liberato dagli italiani) fa da contraltare La guerra di Rosa su L’Espresso del 4 febbraio, in cui il bilancio degli sforzi per frenare le partenze da Valona viene definito "molto deludente". Solo qualche mese fa ogni tentativo di ridurre il flusso migratorio veniva tacciato di "egoismo" se non di razzismo.

Di fronte alla ribellione di gran parte della popolazione o almeno di quella a diretto contatto con questo fenomeno, e col rischio di perdere voti e consenso, si è fatto meno pressante il peso delle lobbies che da tale fenomeno traggono prestigio e fondi pubblici, come ad esempio le potenti organizzazioni che gestiscono i centri di prima – e seconda – accoglienza (o forse sono ormai saturi). E anche la speranza di ottenere voti dagli immigrati probabilmente è stata confrontata con il pericolo di perdere quelli dei precedenti elettori.

Il cambiamento di atteggiamento dei politici – ancora non si può parlare di fatti concreti che abbiano dato un risultato – riflette a mio parere lo sconcerto di un ceto che non è in grado di gestire il Paese, e che quindi cerca solo di ottenere dagli avvenimenti in corso il massimo di beneficio per sé e per il proprio gruppo partitico.

Già i motivi addotti per giustificare l’accoglienza indiscriminata degli immigrati sono un coacervo di asserzioni moralistiche, di incapacità camuffata da vincoli di realtà, di teorie genetiche e antropologiche superate, di false verità storiche.

Cerchiamo di analizzarle con ordine.

Innanzi tutto, la prima accusa a chi sollevava dei dubbi sull’accoglienza indiscriminata di immigrati era quella di razzismo. Accusa facile quando l’immigrazione proveniva prevalentemente dall’Africa, più difficile da sostenere da quando gli immigrati sono in buona parte slavi, anche tenendo presente quanti italiani hanno trascorso in passato le proprie vacanze nei paesi dell’Est, solidarizzando con quelle popolazioni.

La seconda accusa è stata, ed è, quella di egoismo: dobbiamo dividere il nostro benessere con i diseredati della terra. Affermazione alquanto vaga, poichè nessuno ha mai precisato quanto altruismo viene richiesto: se pensiamo ai miliardi di persone che popolano la terra, delle quali la maggior parte abita in Paesi poveri ed è povera, quanti immigrati il nostro Paese dovrebbe accogliere per non essere "egoista"?

La terza affermazione è quella dell’impossibilità di controllare le nostre frontiere, data la loro lunghezza e soprattutto quella delle coste: che non mi pare sia molto superiore a quella, ad esempio di Spagna o Gran Bretagna.... E se anche così fosse, bisognerebbe trarne le conseguenze: se non siamo in grado di difendere il nostro territorio, e non lo sono in particolare le nostre Forze Armate, converrebbe senz’altro smobilitarle, destinando i 20.000, 30.000 o 40.000 miliardi annui del bilancio della Difesa a pagare una gabella ai vari scafisti ed ai loro boss, a patto che non inviino più profughi nel nostro Paese, come sino a due secoli fa si faceva con predoni e pirati (anch’essi provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo).

L’affermazione che lo Stato non è in grado di proteggere il nostro Paese da invasioni pacifiche è molto compromettente, perchè significa che, a maggior ragione, non sarebbe in grado di difenderlo da invasioni armate.

Un’altra giustificazione per la passività della classe politica è quella che la nostra società trae beneficio dal contatto con altre popolazioni. Mi sembra che questo sia un residuo di vecchie concezioni genetiche, secondo cui la mescolanza di razze "svecchia" la popolazione con l’apporto di sangue "nuovo". A parte l’ispirazione draculiana dell’affermazione, forse il significato starebbe nel fatto che l’incrocio di popolazioni diverse migliorerebbe la razza (a proposito di razzismo!) nel senso che diminuirebbe la probabilità del singolo di essere erede di geni portatori di malattie ereditarie, trasmessi da entrambi i genitori.

Ma, guarda caso, l’autorevole genetista Cavalli-Sforza proprio per contrastare le opinioni razziste ha rilevato come la diversità di geni fra individui della stessa popolazione sia superiore a quella media tra popolazioni – o razze – diverse (Luigi L. Cavalli-Sforza, Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano, 1996).

L’ultima e apparentemente più seria argomentazione è che il contatto tra culture diverse ne consente lo svecchiamento – qualsiasi cosa ciò voglia dire – così che recependo elementi delle culture degli immigrati il Paese ospitante ne trae nuovi impulsi di progresso.

L’esempio è quello degli Stati Uniti, la cui potenza economica e militare e l’egemonia culturale vengono viste come il risultato della funzione di melting pot da essi svolta. La stessa Europa, così come è ora, è la somma di secoli di immigrazioni di popolazioni diverse, provenienti dalla Scandinavia e dall’Asia.

Come parte direttamente interessata, mi sorge qualche dubbio sul fatto che la poligamia, l’obbligo per le donne di essere rappresentate nelle istituzioni da componenti maschili della propria famiglia, il chador o l’infibulazione siano manifestazioni di una civiltà da cui dobbiamo trarre esempio. Ma riconosco che la mia è un’opinione di parte e che molti uomini potrebbero vedere con favore l’accoglimento, se non di tutte, di alcune di queste istituzioni.

Cercando quindi di essere il più obiettiva possibile, tenterò di esaminare i luoghi comuni del cosiddetto "arricchimento" delle culture.

Negli Stati Uniti l’integrazione di correnti continue di immigrati è stata possibile perchè essi provenivano prevalentemente dall’Europa e quindi avevano abitudini, culture e spesso la lingua in comune. Gli Stati Uniti venivano da essi percepiti come il Paese della libertà, dove potevano affrancarsi dai vincoli della fame e della sottomissione. La grande estensione del Paese scarsamente abitato favoriva questa convinzione, mentre la classe politica alimentava l’orgoglio di appartenenza di tutte le classi sociali. (Si pensi allo steretipo del poliziotto irlandese, al rude operaio polacco o all’agricoltore olandese).

Ma che questo processo sia avvenuto senza costi e violenza, è alquanto dubbio. Quando gli immigrati si sono trovati di fronte popolazioni con culture veramente diverse non hanno esitato a sterminarle – mi riferisco agli indiani d’America. Si continua poi a sottacere quanto sia stata distruttiva la guerra di Secessione. Le lotte per i diritti civili dei neri non sono di due secoli fa, ma risalgono agli anni Settanta: a Washington, furono date alle fiamme intere strade e il Congresso cedette solo quando gli incendi erano arrivati ad un chilometro dalla Casa Bianca.

Né in Europa le cose andarono meglio. È vero che alla fine si arrivò all’integrazione, ma in genere per opera di operazioni autoritarie di Stati potenti, come quello francese sotto i Capetingi e l’impero Austro-ungarico. Ancora oggi le divisioni degli Stati ricalcano le etnie di 1500 anni fa, come l’Irlanda e la Gran Bretagna, l’Ungheria, la Bulgaria, la Sassonia, la Baviera. Rivendicazioni indipendentiste o autonomiste sommuovono i Paesi Baschi e la Catalogna, regione quest’ultima dove più che altrove si fece sentire l’influenza dei Visigoti.

Se le migrazioni di più di un millennio fa provocano ancora fenomeni terroristici e morti violente, come possiamo sostenerne solo gli aspetti positivi senza mettere sulla bilancia il loro costo?

Nell’alto Medioevo lo sviluppo dei principati, che dettero poi luogo alle guerre interminabili che hanno travagliato il nostro Continente sino al 1945, fu favorito da diversi fattori, tra i quali il più importate è quello costituito dalle particolarità etniche e tradizionali, come fa notare Jan Dhondt (L’alto Medioevo, Feltrinelli, 1989).

La suddivisione del nostro Paese per più di un millennio provocò guerre e distruzioni: iniziò con le migrazioni del terzo e quarto secolo d.C. e terminò solo con le guerre d’indipendenza poco più di un secolo fa.

Negli annali di Fulda per l’anno 888 si legge: "Nel tempo di re Arnolfo di Carinzia sorsero numerosi piccoli sovrani. Berengario, figlio di Eberardo del Friuli, si proclamò re d’Italia. Rodolfo, figlio di Corrado, cominciò a regnare come re dell’Alta Borgogna. Ludovico, figlio di Bosone, governava nella Provenza e Guido (Wildo) figlio del duca Lamberto di Spoleto, aspirava a regnare sulla Gallia belgica. Oddone, figlio di Roberto il Forte, si impadronì del potere nei territori posti a nord della Loira, e Romualdo si proclamò re di una parte dell’Aquitania."

Noi siamo convinti che questo processo disgregativo non possa accadere in presenza di Stati ben organizzati, come quelli moderni. Ma è evidente che gli avvenimenti non si ripresentano sempre esattamente nello stesso modo.

All’inizio degli anni '80 osservatori sovietici prevedevano la disgregazione dell’ex Urss, non come conseguenza dell’inefficienza della burocrazia o della "prevalenza del mercato", ma a causa delle rivendicazioni di più di 200 etnie che componevano l’Unione.

Che il processo di integrazione sia in crisi anche in Stati meglio funzionanti del nostro o dell’ex Unione Sovietica è sotto gli occhi di tutti: negli Stati Uniti i moti di Los Angeles hanno messo in evidenza che anche là lo Stato ufficiale non ha il controllo del territorio. A Londra la polizia non mette mai piede in interi quartieri, dove gli immigrati si sono volutamente isolati; la Francia ha problemi analoghi.

L’ipotesi che gli immigrati vogliano integrarsi è a mio parere alquanto presuntuosa.

Gli anni Sessanta e Settanta hanno favorito la ricerca e l’esaltazione delle culture proprie di ciascuna popolazione, che ad esse si riferiscono per trovare sicurezza di fronte a comportamenti non compresi e non accettati. I movimenti indipendentisti e la propaganda antiamericana hanno esaltato le tradizioni locali, viste in opposizione alla tecnocrazia e alla "civiltà" occidentale. Sino agli anni Settanta la lingua ufficiale americana era quella inglese; ora deve dividere la propria egemonia con quella ispanica. E, come sappiamo, la lingua è il fattore più importante di integrazione.

Il fondamentalismo islamico, sostenuto dal fiume di dollari provenienti dal petrolio, non si propone certo di integrare i propri seguaci con gli "infedeli" occidentali.

I Paesi di immigrazione sono visti come luoghi ricchi da sfruttare, dove nulla è condiviso, salvo le ricchezze materiali: né la morale, né le istituzioni. Persino le norme igieniche sono diverse e i tentativi di imporre quelle occidentali sono considerati una manifestazione di imperialismo.

Il chador è la bandiera di questa diversità: pur di rivendicare l’estraneità alle istituzioni del Paese ospitante, le donne sono orgogliose persino dei simboli della propria sottomissione.


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Fisco: e la rete si estende…

di Nicola Sardi

 

(Febbraio 1999) Il ministro delle Finanze Visco, con il placet di D'Alema, vuole arrivare alla soppressione degli interventi dei professionisti cosiddetti contabili dal mercato dell'assistenza fiscale, introducendo l'uso del nuovo servizio telematico, affinchè tale servizio sia svolto esclusivamente dai CAF, per lo più in mano ai sindacati e alle associazioni imprenditoriali di categoria che attualmente appoggiano il governo.

Così facendo ottiene in un colpo solo due obiettivi: l'abolizione di tutti i controlli formali delle dichiarazioni, con possibilità quindi di maggiori controlli sostanziali dei contribuenti sul territorio e l'indispensabile sostegno elettorale per mantenersi in carica, potendo in tal modo dimostrare che intende effettivamente sconfiggere l'evasione fiscale in Italia.

Questa è d'altronde l'unica chiave di lettura e d'interpretazione logica a quanto sta accadendo… Vediamo perché dall'andamento dei fatti.

Dal recente sondaggio condotto via Internet da "Il Sole-24 Ore", attraverso la formulazione di otto quesiti sulla riforma dell'assistenza fiscale in via telematica, introdotta dal 1999 dal ministro Visco, è emerso un risultato certamente non equivoco: oltre l'80 per cento dei professionisti ed esperti che hanno partecipato, e che hanno costituito la quasi totalità del campione, hanno risposto negativamente alle novità che vengono introdotte con la riforma, sancendone quindi una condanna senza possibilità d'appello.

Quello che fa specie è che i professionisti ed esperti che normalmente operano nel campo della consulenza e assistenza fiscale, sia quelli iscritti ai relativi albi, sia i non iscritti, hanno detto decisamente no alla riforma, mentre solo presso un piccolo gruppo d'esperti fiscali operanti presso le aziende, le novità non hanno ricevuto un accoglimento così negativo.

La condanna alla riforma era largamente prevista, a causa delle proteste che negli ultimi mesi si erano registrate presso le rappresentanze organiche delle categorie interessate: da parte degli ordini dei dottori commercialisti e ragionieri, degli avvocati, delle associazioni dei revisori contabili e dei tributaristi non iscritti ad albi… Eppure, nonostante ciò, la riforma è legge e il ministro Visco va avanti imperterrito!

E' giusto perciò chiedersi il perché di questa ostinazione, cercando di capire quali possano essere i surrettizi obiettivi del ministro, che ha tanto voluto e ottenuto questa riforma.

E' certo che, almeno al momento, i soggetti interessati, non avendo manifestato le loro proteste con la necessaria coesione, hanno dato l'impressione ai lettori dei quotidiani specializzati di litigare tra loro solo per conservare o accrescere a danni di altri il proprio orticello professionale. Ma così non è… Infatti, dopo il risultato del sondaggio, si sono registrati importanti appelli ad una maggiore unità tra le diverse categorie, (quale quello del Presidente dell'istituto nazionale dei revisori contabili), che lasciano ora ben sperare in una lotta più compatta contro il ministro.

I professionisti hanno finalmente capito che con la riforma si vuole di fatto arrivare alla soppressione e abolizione delle loro competenze di carattere operativo nell'ambito dell'assistenza fiscale prestata in via telematica, relegando la loro attività al solo campo della pura consulenza.

D'altronde, questa del ministro, è l'unica risposta logica ad una scelta ostinata di ribadire certe posizioni che già in passato avevano destato levate di scudi da parte delle categorie professionali, con conseguenti condanne da parte sia dell'Antitrust che della giustizia amministrativa. Il tutto come a partire dal 1992 avvenne a seguito dell'introduzione del visto di conformità delle dichiarazioni fiscali, oggi riproposto a piè pari con il cosiddetto visto pesante, ufficialmente però con l'intendimento di riqualificare detta formalità, rivelatasi un vero fallimento.

Queste scelte del ministro risultano del tutto coerenti con la strada già intrapresa in passato e che già aveva provocato un'unanime levata di scudi da parte delle diverse categorie professionali; ora essa è ripercorsa con ostinazione, nonostante, sia l'Antitrust, sia la giustizia amministrativa, già in precedenza, si siano pronunziate su provvedimenti del tutto analoghi, sancendone la loro illegittimità; si trattava in quel caso, come già detto, del visto di conformità, di cui l'odierno visto pesante, anche se presentato come occasione di riqualificazione professionale, ne costituisce semplicemente il clone.

Il signor ministro Visco, che in primavera compirà i suoi primi tre anni di mandato alle Finanze (un vero record in Italia, stante anche la delicatezza di questo Ministero), non può certo essere accusato di ambiguità o di indecisione, appare, anzi, estremamente determinato nella sua volontà di realizzare il suo vero e non più troppo occulto progetto: affidare il settore dell'assistenza fiscale e, quindi, il controllo della platea dei contribuenti italiani, all'efficacia privata dei Caf (centri di assistenza fiscale), tramite il servizio telematico, avendo evidentemente preso atto della cronica inadeguatezza delle strutture pubbliche dell'amministrazione finanziaria. La riforma, come è stato puntualmente affermato, "in virtù di una malintesa libertà di mercato affida ai Caf delle organizzazioni sindacali e di categoria, competenze che soltanto professionisti qualificati possono garantire" (da "Il Sole-24 Ore" del 30.1.99: Assistenza fiscale: scatta oggi la protesta contro i Caf).

Ecco quindi che il surrettizio obiettivo politico si manifesta in tutta la sua evidenza: ovvero affidare il mercato dell'assistenza fiscale ai Caf dei sindacati e delle categorie imprenditoriali che sostengono l'attuale governo, escludendone di fatto le categorie professionali; esse in tal modo sono poste – invece che in un rapporto di normale concorrenza secondo le leggi del mercato – in contrasto l'una con l'altra, cosicchè risulta facile tacciare di corporativismo le conseguenti pur legittime proteste.

Peraltro, in passato, i professionisti pur operando con il lodevole obiettivo della tutela dei diritti del contribuente, hanno solo dato fastidi all'amministrazione finanziaria senza di contro rappresentare un importante, né determinante, supporto elettorale… Facciamoli allora fuori e diamo la tenuta delle contabilità, l'elaborazione, la presentazione e la certificazione delle dichiarazioni fiscali in mano ai Caf, che, per di più, costano quasi niente… Tutti sotto controllo in via telematica: dipendenti, pensionati, ditte individuali, società di persone e di capitali senza obbligo di collegio sindacale, con studi di settore concordati con le categorie dei contribuenti autonomi, ottenendo così l'agognata pace fiscale, il consenso dell'elettorato e anche il risparmio d'onerose parcelle per attività, in fondo, di routine…!

Bravo signor ministro Visco! Manca poi solo un tassello per completare l'estensione della rete del ragno, del quale però si parlava già con insistenza a fine anno '98: il monitoraggio dei conti correnti bancari e, a quel punto, l'opera sarà felicemente ultimata!


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La sola politica di sviluppo
è quella verso le imprese

di Paolo Brera

 

(Febbraio '99) Amarognola promozione a Bruxelles, agra bocciatura a Milano: se l'augusto consesso dei ministri delle Finanze europei, soprannominato Ecofin per amor di sigle, ha approvato il pianuzzo italiano di stabilità storcendo un po' la bocca, piazza degli Affari ha fatto smorfiacce di disgusto nei giorni successivi. I mercati finanziari sono lo specchio delle valutazioni degli operatori economici, dunque il verdetto è chiaro: la promozione conta poco, l'Italia è in difficoltà. Né aiuta il fatto che a pochi giorni di distanza, nei dati di dicembre, si debba registrare un vero tracollo della produzione industriale.

I mercati non sempre hanno ragione. Spesso, secondo l'espressione coniata da Pascal a tutt'altro proposito, hanno ragioni che la ragione non conosce. Però ignorarle del tutto, queste ragioni-non-ragioni, è sempre molto ma molto irragionevole. Quali sono, allora, i problemi dell'Italia che giustificano la sfiducia affiorata in Borsa?

Il più grosso e ostinato dei nostri problemi è senza dubbio l'insufficiente crescita economica. Nel 1998, lo ha detto di recente il ragioniere dello Stato Monorchio, l'aumento del Pil è stato grosso modo dell'1,5 per cento. Un anno di micragna, ma signori miei, fosse almeno il primo! In realtà, fra il 1994 e il 1997 la crescita è stata appena dell'1,7 per cento all'anno. Considerando l'immigrazione, si può concludere che il prodotto pro capite è rimasto praticamente fermo per cinque anni. Questo è stato, per noi, il prezzo dell'Europa.

Beninteso, valeva la pena di pagarlo. Solo che la dimensione europea deve ora essere presente alla mente di tutti e per davvero, non per slogan. Essere nell'euro ha cambiato profondamente le cose per la nostra economia. Sotto certi aspetti, siamo più deboli di prima, non più forti.

Nonostante la promozione piena di qualificazioni da parte dell'Ecofin (dice bene Adriana Cerretelli: l'esame è alle spalle, ma la pagella pesa come un macigno), il riequilibrio dei conti pubblici italiani è più fragile di quello degli altri Paesi, perché dipende in misura sostanziale dal mantenimento di bassi tassi d'interesse. Se l'economia ripartisse, i tassi salirebbero e il deficit pubblico tornerebbe a dilatarsi. La via del rigore è senza alternative, perché riflazionare l'economia a colpi di spesa pubbblica significherebbe sforare subito i limiti posti in sede europea, con le gravi conseguenze previste dal Patto di stabilità. Di più: questo potrebbe verificarsi perfino se a riflazionare fossero gli altri. Insomma, bisogna concludere che la politica macroeconomica, per l'Italia, appartiene al passato. Oggi, in questo campo, non abbiamo più la minima libertà di movimento.

Quando la domanda si risveglierà, ad approfittarne – in qualunque Paese d'Europa – saranno i produttori più efficienti, senza riguardo al loro Paese di origine, e non quelli locali. E' difficile che tali siano gli italiani. Non è questione di essere individualmente bravi, ma di essere nelle condizioni migliori per esprimere una buona performance. Per questo oggi in Italia l'unica politica che può generare sviluppo è quella microeconomica. Bisogna mettere in grado le imprese di tagliarsi una fetta più cospicua di quel tanto di crescita che vi sarà in Europa – una crescita le cui dimensioni non dipenderanno affatto da noi.

Dei modi per realizzare questo si è parlato abbondantemente sulla stampa e sulla scena politica. Elenchiamoli pure. Riduzione delle imposte e degli adempimenti burocratici. Dialogo tra autorità e produttori. Flessibilità del lavoro, perché perdere il posto non è un dramma se è facile trovarne un altro, ed è facile trovarne un altro se gli imprenditori non devono più temere di trovarsi sulle spalle buste paga divenute inutili. Un sistema giudiziario che renda recuperabili i crediti. Un supporto reale alle imprese da parte del settore pubblico.

In poche parole: il governo deve piantarla di far prediche a chi produce e deve cominciare a produrre esso stesso qualche risultato in tutti questi campi. Questo è oggi il suo compito. Le imprese, siamone certi, saranno pari al loro.


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Ford-Volvo, le lezioni per noi italiani

di Paolo Brera

 

(Gennaio ’99) Il vero evento degli ultimi giorni non è stato la prima uscita insieme di Charles Windsor e Camilla Parket-Bowles, ma un evento globale: l'acquisto della divisione auto della Volvo da parte della Ford. Purtroppo, si tratta di un avvenimento di pessimo auspicio per noi italiani.

I più diretti interessati, che stanno a Torino e si chiamano per lo più Agnelli, se ne sono stati abbottonatissimi. Nei giorni precedenti si era parlato di un matrimonio tra la casa svedese e la Fiat. La bella fidanzata nordica però si è trovata oltre Oceano un corteggiatore più gradito, ed è con lui debitamente convolata lasciando la Fiat. La reazione di questa? Compostissima. Calma. Signorile. "L'acquisizione della sola divisione automobilistica non rientrava nei nostri interessi strategici e pertanto non è mai stata oggetto della nostre trattative". Più volpe ed uva di così si muore.

Dall'altra parte si sprecano le grida di gioia, come si conviene a un matrimonio. L'acquisizione della Volvo permetterà alla Ford di aggiungere un 10 per cento alla sua quota del mercato europeo, nonché di rafforzarsi nei segmenti alti del mercato e nel segmento che bada alla sicurezza, che è il cavallo di battaglia del produttore svedese. L'analista Joe Phillippi della Lehman Brothers, ha detto che questa acquisizione è logica per la Ford, "purché Wall Street non giudichi il prezzo troppo alto". Ma ti pare! Wall Street si è buttata a pesce sulle azioni Ford, almeno come reazione immediata. Il titolo Fiat invece è arretrato.

Fiat ha ragione di rattristarsi. Tutti gli analisti concordano che nel terzo millennio le case automobilistiche mondiali saranno molte meno: resteranno solo i giocatori globali e non saranno più di tre o quattro. Una politica di alleanze (tu, felix Austria, nube!) è condizione indispensabile per ritrovarsi nel novero degli eletti al momento del redde rationem. Ma i partiti possibili non sono molti, e sulla carta l'integrazione italo-svedese si presentava come quasi l'unica ragionevole. Ora la casa torinese è "fuori al freddo", come dicono gli americani.

Ma c'è un guaio peggiore, che riguarda tutti gli italiani. E' quasi impossibile pensare che l'immagine negativa del nostro sistema-Paese non abbia pesato proprio niente sull'esito delle trattative. Nonostante gli anni di stecchetto ai quali noi italiani ci siamo sottoposti per entrare nell'euro, ancora non siamo credibili. Due schiaffi abbiamo ricevuto: il prezzo minore richiesto alla Ford e la mancata menzione della Fiat (webbare per credere) nella quasi totalità delle notizie d'agenzia che parlano di questo gigantesco merger. Come se la nostra più grande impresa proprio non esistesse.

No, qualcosa decisamente non funziona. Siamo nel mercato unico e nell'euro, e le nostre imprese si confrontano direttamente con quelle di tutta l'Europa, in una lotta concorrenziale che è ormai un corpo a corpo. Le fragilità del nostro sistema produttivo, che derivano in larga misura dagli sfracelli che ci combina il settore pubblico e in parte minore, ma significativa, dall'assenza di una vera cultura capitalistica, sono esposte a tutti. E' sicuramente ora di preoccuparsi quando una grande occasione svanisce, specialmente quando da essa dipendeva (e spero di essere cattivissimo profeta!) la sopravvivenza stessa della Fiat. Mica ne abbiamo tante, di imprese così. I tempi richiedono riforme serie e profonde. Sarebbe proprio ora che arrivassero.


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Il fantasma dell'euro

(Gennaio 1999) Adesso che nelle Borse mondiali è infine tornata una certa calma, anche noi tutti possiamo magari tirare un po' il fiato e riflettere su una cosa: con ogni evidenza, la volatilità dei corsi azionari è enormemente aumentata rispetto a diverse situazioni passate, pure non meno critiche di quella dei giorni scorsi…

di Paolo Brera

 

Le Borse europee in effetti hanno manifestato oscillazioni del 5-6 per cento all'interno di una sola seduta giornaliera. Un tempo non era così, e il motivo di questo inquietante mutamento non è nella psicologia degli operatori o in chissà quale altra causa dello stesso ordine. No, il motivo è molto più banale: dal primo gennaio in tutte le Borse di Eurolandia la trattazione dei titoli avviene in euro.

Sembra una cosa da niente, e invece da niente non è. Una cifra espressa nella moneta cui siamo abituati ha un'immediatezza che non può avere se è invece espressa in altre valute. Sappiamo, certo, che un euro equivale a 1936,27 lire, ma se al ristorante paghiamo un conto di 45,34 euro, è tanto o poco? Calma e gesso. Anzi: fuori la calcolatrice, prego!

La maggioranza degli operatori di Borsa professionali però non ha il tempo di snudare il proprio aggeggino elettronico, digitare una cifra, impostare un'operazione di conversione e in tal modo, di quella cifra, capire il significato e quindi farsi un'idea di come reagire. Altro che calma e gesso! devono fare qualcosa subito.

Ed è così che le reazioni spesso si amplificano. Quando si ragionava in lire, era facile prendere le decisioni immediate. Un titolo scende, a quel prezzo conviene, compro. Un titolo sale, a quel prezzo ci guadagno, vendo. Oggi tra l'evento e la comprensione c'è un passaggio in più che non sempre si riesce ad attraversare, perciò le decisioni sono molto meno meditate.

Questione di abitudine, obietterà qualcuno. Ammettiamolo, è questione di abitudine. Ma è un'abitudine che faticherà parecchio a instaurarsi, sinché l'euro sarà una semplice moneta scritturale e non una realtà che fruscia e tintinna nei nostri portafogli e borsellini. La moneta divisionale è quella che realmente instaura l'abitudine e rende facile il giudizio.

Il problema è che l'euro moneta sarà disponibile in monete euro solo nel 2002, e le banconote lo stesso. Questo lunghissimo periodo di transizione sta cominciando ad apparire demenziale. Non solo per le vicende della Borsa, ma anche perché le banche si sono messe a chiedere per la conversione di banconote dall'uno all'altro sottomultiplo dell'euro commissioni spropositate, più alte di quando i sottomultipli suddetti erano ancora valute distinte dotate di una vita indipendente.

Un euro che cessa di essere un fantasma e arriva nella cassa dei salumieri e degli edicolanti sarebbe la migliore risposta all'arroccamento degli euroscettici. Perfino l'autorevole Economist non solo pubblica ancora in copertina i prezzi in lire e in marchi e non in euro (anche perché questi ultimi sono diversi da Paese a Paese…), ma nell'articolo che salutava l'avvento della nuova moneta ha scritto che i mercati dovevano in qualche modo sanzionare come credibili i tassi di cambio incorporati nell'euro. No, signor Economist: le valute nazionali sono ormai puri sottomultipli dell'euro, e il fatto che si scambino fra loro in date proporzioni deriva dalla promessa della Banca centrale europea. Per lo stesso motivo – una promessa, però della Bank of England – una banconota da dieci sterline viene accettata dovunque in cambio di dieci monete da una sterlina, senza che "i mercati" debbano sanzionare alcunché. Ma è difficile accorgersene finché la sola realtà, per gli edicolanti e i salumieri, sono i vecchi segni monetari nazionali. Volevamo l'euro, l'abbiamo. Ora però vorremmo anche usarne quanto prima gli spiccioli. Si può fare, signor Duisenberg?


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Euroanomali. Visco, riforma il Fisco!

di Paolo Brera

 

(Gennaio 1999) L'attenzione di tutti è calamitata, in questo inizio d'anno che è anche la fine di un millennio, dall'avvento dell'euro e dai mutamenti spiccioli che comportano i tre anni di confusa transizione che ci stanno dinnanzi. Ciò che ancora manca è qualche considerazione meno spicciola sull'avvenire dell'Italia nelle nuove condizioni. In un campo, in particolare: quello dell'imposizione fiscale, dove oggi si gioca il futuro della nostra economia.

E' importante? Sì, è importante. Il modo in cui siamo giunti all'unificazione monetaria, infatti, è diverso da quello della maggior parte degli altri Paesi. Ed è diverso, sia ben chiaro, a tutto nostro svantaggio. Siamo, nel contesto europeo che costituisce l'unico riferimento proponibile, decisamente anomali.

Negli ultimi giorni dell'anno scorso è stato diffuso un documento del Fondo monetario internazionale dal quale risulta che nel nostro Paese l'evasione fiscale ammonta al 12,6 per cento del pil. Di questa quota il 7,5 per cento è da imputarsi ai lavoratori autonomi, incluse imprese e società individuali, il 3,1 per cento all'Iva, l'1,3 per cento a lavoratori dipendenti e pensionati e lo 0,7 per cento alle società non finanziarie. Esaminando gli andamenti del gettito e il rispetto degli obblighi fiscali da parte del contribuente, gli esperti del Fmi hanno rilevato che le piccole e medie imprese sono la categoria che più delle altre occulta la base imponibile. Il reddito non dichiarato è pari, infatti, al 58,7 per cento del potenziale imponibile. Il reddito non dichiarato dai lavoratori dipendenti è valutato nell'8,5 per cento mentre nel settore dell'Iva sfugge al fisco il 38,3 per cento del valore aggiunto che andrebbe sottoposto a tassazione.

Come c'era da aspettarsi, le cifre di cui sopra sono state subito lette come un incitamento all'indignazione morale. Guardateli, quegli schifosi piccoli imprenditori e lavoratori autonomi, come evadono! E un ministro come Visco ha avuto buon gioco nel ripetere ancora una volta che la pressione fiscale in Italia è nella media europea, quindi di che cosa si lamentano tutti quanti? Pensino piuttosto a rispettare gli adempimenti!

Parte del malcontento deriva dal fatto che il prelievo fiscale in Italia è aumentato con molta rapidità negli anni Ottanta e Novanta, cosa che permette a ciascuno di ricordare una "età dell'oro" in cui le tasse erano molto più umane. Gli esperti del Fmi hanno sottolineato come, nel nostro Paese, il rapporto tra il gettito fiscale complessivo e il pil sia costantemente cresciuto nel corso dell'ultimo decennio, partendo dal 39,4 per cento del 1990 per arrivare al 43,6 per cento del 1997. Quest'ultima quota è di poco superiore alla media dell'Unione Europea, che è pari al 42,6 per cento.

Le cifre del Fmi, tuttavia, sono suscettibili di un'altra interpretazione, più ragionata, che porta a conclusioni ben diverse da quelle del ministro.

Bisogna dare atto a Visco che da noi la pressione fiscale (definita come la percentuale del prodotto interno lordo che viene tolta ai produttori dallo Stato) non poi altissima se paragonata al resto d'Europa: secondo dati Eurostat (non identici a quelli del Fmi), arriviamo al 44,5 per cento (nel 1997) contro percentuali superiori in otto Paesi e inferiori in altri sei. Il record negativo è quello della Svezia: 54,1 per cento. Più di noi pagano i francesi, col 45,9. I cittadini tedeschi invece tirano fuori il 41,6, quelli britannici e spagnoli solo il 36.

Il dato della pressione fiscale però non è il risultato delle pure e semplici norme fiscali, ma del tira e molla tra Fisco e contribuenti. E qui l'evasione italiana incide, nel senso che effettivamente da noi si cerca di evadere più di quanto non si faccia altrove. Se però tutti "facessero il loro dovere" (così spesso si esprimono i giornali, quando affrontano l'argomento), la pressione fiscale sarebbe non al 44,5, ma al 57,1 per cento: tre punti percentuali in più della Svezia.

Gli svedesi, è vero, non sono troppo scontenti di dare allo Stato una quota così elevata del loro reddito. Sanno come sarà usata e sono d'accordo che lo Stato assicuri a tutti i membri della società un alto livello di prestazioni sociali. Il problema è che in Italia non solo un tale accordo non c'è, ma lo Stato per parte sua assicura ben poco. Ciò che il cittadino italiano riceve non è all'altezza non dico di ciò che si ottiene in Francia o in Germania, ma neppure di ciò che hanno gli inglesi. C'è un'unica eccezione: le pensioni, per le quali da noi si spende di più. Ma anche qui il sistema italiano è pieno di diseguaglianze che puzzano di ingiustizia lontano un miglio: molte pensioni altissime e molte pensioni-baby da una parte, innumerevoli trattamenti mensili da fame dall'altra.

Il prelievo fiscale, quando è molto alto, agisce da freno sugli investimenti e sullo stesso sforzo produttivo. Lavorare per gli altri è bello, ma lavorare per sé stessi lo è anche di più. Le risorse per l'investimento, se lo Stato si è già preso le nostre, devono provenire da investitori esterni o dalle banche: nell'un caso e nell'altro bisogna assumersi responsabilità maggiori, se non schiaccianti. E questo stesso Stato che preleva più della metà degli utili non ci aiuta minimamente a far fronte alle eventuali perdite. Stando ai dati del Fmi, la piccola impresa occulta il 58,7 per cento della base imponibile potenziale. Due conti e scopriamo che in tal modo riesce a farsi requisire solo il 26,1 per cento del reddito che produce. Cioè più o meno il livello della Corea o del Giappone. Questi Paesi sono nostri concorrenti. Serve di più per capire che bisogna riformare alla svelta il fisco?

A molti di noi forse no, ma al ministro Visco sì. Il guaio è che per i beneficiari della spesa pubblica il prelievo fiscale è un bene, non un male: più gli altripagano, più loro ricevono. Questi beneficiari sono dipendenti pubblici e occupati nella grande impresa privata. Sono anche, vedi caso, la maggioranza degli elettori del centro sinistra. Per questo il governo ha fatto e farà ben poco per cambiare le cose. Dovremo aspettare che la perdita di competitività che è il portato inevitabile di un elevato prelievo fiscale incida sulle condizioni di vita della gente a tal punto da minacciare la stessa base elettorale del governo. A quel punto, e solo a quel punto, il governo cambierà le cose. Oppure, in alternativa, saranno gli elettori a cambiare il governo.


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L'insaziabile ceto politico-burocratico

di Alessandra Nannei

 

 (Dicembre 1998) Si racconta che alla fine della seconda guerra mondiale un famoso generale americano a cinque stelle, di idee evidentemente reazionarie, dicesse ai suoi:

"E adesso possiamo fare il fascismo!"

Alle obiezioni sollevate - avevano fatto la guerra per vincere il fascismo e quindi non lo si poteva proporre al popolo americano come modello di società, l’imperturbabile generale rispose:

"E allora lo chiameremo antifascismo!".

Questa breve storiella mostra come spesso il modo in cui chiamiamo le cose ci condiziona al punto da vederne solo alcuni aspetti e non altri, da cui le nostre convinzioni ci farebbero rifuggire.

Da quanto si sa delle vicende umane nel corso dei milleni, vi è sempre stato un antagonismo tra organizzazioni centrali a cui i componenti di una società demandano alcuni poteri, e la società stessa a cui queste organizzazioni troppo spesso tendono a togliere via via più "gradi di libertà" e ad imporre balzelli ed obblighi.

Gli antichi regni assiro-babilonesi, ittiti o egizi erano probabilmente meno autoritari di quanto la nostra esperienza ci faccia supporre, dato che minore era allora il controllo del territorio.

Come ricorda Duby nel quattrocento, nonostante la pena di morte in cui si incorreva in caso di non osservanza dell’obbligo, la grande maggioranza della popolazione - almeno in Francia - non andava a Messa a Pasqua, indice questo che poco poteva fare il governo centrale.

Riti pagani erano normalmente seguiti sino al seicento nelle regioni contadine dei paesi dell’est, malgrado il fatto che nell’anno mille i re polacchi avessero ammazzato in un colpo solo 10.000 russi per convertirli al cattolicesimo.

Se si legge con occhio disincantato la storia, ci si rende conto che può essere anche un lungo racconto delle resistenze che i comuni mortali hanno continuamente opposto all’autoritarismo delle classi che, per un motivo o per l’altro, si erano impossesssate o gestivano il potere.

Autoritarismo che, come ben hanno rilevato sia gli studiosi marxisti che quelli di orientamento liberale, non si limita ad imporre credenze non volute dalla popolazione, ma consiste soprattutto nell’appropriarsi di quote di risorse economiche prodotte dalla gente comune.

Le motivazioni sono state via via le più diverse - dapprima i grandi lavori pubblici, poi le guerre ed infine ... lo Stato sociale.

Risalgono a subito dopo la conquista normanna le prime contestazioni, di cui si ha notizia, da parte dei contadini britannici contro le tasse imposte dai re inglesi.

Che fosse per costruire una flotta, invadere un Paese straniero, dare uno stipendio ai disoccupati, aiutare il Terzo Mondo o... entrare in Europa, i ceti politici nel corso dei secoli hanno cercato, e continuano a farlo, di mantenere il proprio potere gestendo quote sempre maggiori di reddito nazionale.

Questo consente in primo luogo di prosperare in quanto classe e di costituire una rete di elargizione di risorse, da altri prodotte, che li rende indispensabili.

E’ necessario, per fare questo, aumentare il numero di diritti che l’individuo non può esercitare in prima persona, ma vengono mediati dalle cosiddette istituzioni, e la quantità di "responsabilità" che ogni individuo deve accollarsi nei confronti di terzi e che pure sono gestite dalle "istituzioni", o meglio dalle persone che tali istituzioni rappresentano.

Ecco quindi moltiplicarsi gli aiuti agli individui, alle famiglie, alle collettività lontane, sempre in nome di una solidarietà a cui nessuno può e deve sottrarsi, pena il rischio di essere segnato a dito come il peggiore dei reprobi.

La cattiva amministrazione del Paese favorisce, e non indebolisce, il potere della classe politica.

Se non metti in atto quei provvedimenti che favoriscono la ripresa spontanea dell’occupazione – ricerca nei settori economici trainanti, riduzione del costo del lavoro, maggiore efficienza della macchina burocratica – devi poi intervenire per aiutare coloro che si trovano senza lavoro. Questo comporta una maggiorazione del prelievo fiscale, gestito dal ceto politico-burocratico.

E se i problemi interni non bastano, ci sono sempre quelli internazionali. Cooperazione, aiuti al Terzo Mondo, al Kosovo o alla Somalia, terzo settore – tanto per intenderci, quello delle cosiddette associazioni di volontariato tutte finanziate con soldi pubblici – sono strumenti per aumentare la quota di risorse del paese controllata al ceto politico-burocratico. E poichè non esiste un vincolo alla spesa, salvo quelli riguardanti il rapporto tra deficit e pil recentemente imposti dall’Ue, il potere del ceto politico-burocratico si consolida ed aumenta.

Le rivoluzioni liberali del Sei-Settecento andavano nel senso di ridurre la classe dei burocrati che gestivano gli Stati centrali nati con la fine del feudalesimo (ma che risentivano anche del peso di questo).

Si era pensato che l’applicazione di un nuovo modello politico di rappresentanza generale potesse rompere una volta per tutte la spirale delle "spese improduttive", riducendo la parte di popolazione che non solo vive sul lavoro degli altri, ma riesce anche ad imporre a questi "altri" un’autorità se non incontrastata, certo molto pesante.

Autorità che non si realizza attraverso l’imposizione del rispetto di una legge certa e ritenuta equa dalla società, ma con l’emanazione di leggi confuse ed incerte. Queste a loro volta non hanno altro effetto che aumentare il contenzioso giudiziario e la conflittualità sociale, al fine di rendere indispensabile la mediazione del ceto politico-burocratico. L’intervento del governo nei casi di scioperi sia nel settore privato sia in quello dei trasporti, e da noi il recente "nuovo patto sociale", ne sono due piccoli esempi.

Forse il secondo millennio finisce con questa consapevolezza: il ceto politico-burocratico è un virus che continuamente si moltiplica, continuamente modificando il proprio Dna per adeguarsi alle difese che la società civile di volta in volta cerca di mettere in atto.


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Niente crescita per l'economia italiana

di Paolo Brera

 

(12 Dicembre 1998) Chi ha ragione, la Confindustria o il governo? Pessimista la prima, ottimista il secondo sull'avvenire immediato dell'economia italiana. L'associazione degli industriali ha revisionato al ribasso le sue previsioni sul prodotto interno lordo del 1998, portando la crescita attesa all'1,3%. La crescita italiana nel 1999, secondo le stime del Centro studi di Confindustria, sarà invece pari all' 1,9%. Ai cronisti dell'Associazione della Stampa estera in Italia il ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi ha invece detto che il Pil del 1999 dovrebbe crescere del 2,5%. Mentre per l'anno in corso, ha proseguito il più autorevole dei ministri italiani, "non faccio previsioni". Altri ministri sono meno prudenti e si danno volentieri a decantare le magnifiche sorti e progressive dell'economia nell'era del centro-sinistra e dell'euro.

La verità è che per l'Italia l'euro – o per meglio dire l'insieme delle regole che sono state fissate a livello europeo per assicurarne la stabilità – crea condizioni molto difficili. Il mondo intero grida per avere un po' di riflazione keynesiana, non con la spesa pubblica, ma con minori tasse per rilanciare i consumi privati. Ma l'Italia non può dare ascolto, perché paga l'eredità del passato e gli orientamenti dei ceti che sostengono il governo sul piano elettorale – giacché nessun presidente del Consiglio darà mai addosso ai propri elettori se non ne ha pronti altrettanti di ricambio. La spesa pubblica deve restare alta e dunque la riduzione del deficit può essere ottenuta solo con il rinserro del torchio fiscale, checché ne dica il ministro Visco (che alla prova dei fatti ancora non si è visto allentare la pressione, ne parla soltanto).

 

Così crescerà l'Italia nel 1999. Forse

 

 

Istituto

 

 

Stima attuale

 

Stima prec.

Confindustria

1,3%

2,3%

Prometeia

1,7%

2,3%

Confcommercio

1,8%

2,4%

Irs

1,9%

2,2%

Cer

1,6%

2,2%

Fmi

2,1%

2,3%

Ocse

2,4%

2,4%

Ue

1,7%

2,4%

Governo

<1,8%

2,5%


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La nuova economia del ciberspazio

Ovvero: esiste ancora la proprietà intellettuale? Un quadro di riferimento per ripensare brevetti e copyright nell'era digitale

di John Perry Barlow*

 

Per tutto il tempo durante il quale mi sono aggirato per il ciberspazio, un immenso, irrisolto rompicapo è rimasto alla radice di quasi tutte le vessazioni giudiziarie, etiche, governative e sociali che si possono incontrare nel Mondo Virtuale. Mi riferisco al problema della proprietà digitalizzata. L'enigma è questo: se la nostra proprietà può essere riprodotta all'infinito e distribuita istantaneamente su tutto il pianeta senza spesa, senza che noi ce ne accorgiamo, e addirittura senza che noi ne siamo privati per un solo momento, come possiamo proteggerla? Come riusciremo a farci pagare per il lavoro della nostra mente? E se non possiamo essere pagati, che cosa assicurerà che vada avanti la creazione e la distribuzione di questo genere di lavoro?

Poiché non abbiamo una soluzione per questa sfida di genere affatto nuovo, e con tutta evidenza non siamo in grado di ritardare la galoppante digitalizzazione di ogni cosa che non sia ostinatamente fisica, facciamo vela per il futuro su una nave che sta affondando.

Questo vascello, il canone sempre crescente delle norme sul copyright e sui brevetti, fu costruito per trasportare forme e metodi di espressione del tutto differenti dal carico vaporoso che gli si chiede oggi di portare. Fa acqua tanto da dentro quanto da fuori.

Gli sforzi giuridici per tenere a galla la vecchia barca stanno prendendo tre forme: un frenetico attivismo per ridistribuire le sedie a sdraio che stanno sul ponte, severi moniti ai passeggeri che se la barca affonderà loro dovranno affrontare dure pene, e la serenissima, occhivitrea negazione che esista un problema.

Il diritto della proprietà intellettuale non può essere rammendato, taroccato o ampliato in modo da abbracciare l'espressione digitalizzata. Allo stesso modo, il diritto della proprietà immobiliare non potrà mai essere revisionato al punto da includere l'allocazione delle frequenze radiotelevisive (e c'è una certa somiglianza fra i due casi). Occorrerà sviluppare un insieme del tutto nuovo di metodi che si convenga a questo insieme del tutto nuovo di circostanze.

La piuparte della gente che di fatto crea proprietà soft - programmatori, hacker, e girovaghi del ciberspazio - tutto questo lo sa già. Per sventura né le imprese per cui lavorano né i legali di queste imprese hanno una sufficiente esperienza di beni immateriali per comprendere perché siano così spinosi. Si muovono come se le vecchie leggi potessero essere fatte funzionare, con una grottesca espansione o con la forza. Si sbagliano.

Tanto complessa appare la soluzione del rompicapo quanto semplice ne è l'origine. La tecnologia digitale sta staccando l'informazione dal piano fisico, dove ha sempre trovato definizione qualsiasi tipo di normazione sulla proprietà.

Per tutto il corso della storia del copyright e dei brevetti, le affermazioni di proprietà dei pensatori si sono concentrate non sulle idee ma sull'espressione di esse. Le idee in quanto tali, così come i fatti concernenti i fenomeni del mondo reale, venivano considerati proprietà collettiva dell'umanità. Nel caso del copyright, un autore poteva rivendicare come proprio il preciso giro di frase con cui veniva resa una particolare idea, o l'ordine in cui venivano presentati i fatti.

Il punto in cui questa proprietà veniva fatta valere era il momento in cui "il verbo si faceva carne": si separava cioè dalla mente del suo ideatore ed entrava in qualche oggetto fisico, per esempio un libro. Il successivo arrivo di altri media commerciali oltre i libri non alterò l'importanza giuridica di questo momento. La legge proteggeva l'espressione: ora, con poche (e recenti) eccezioni, "esprimere" significava "rendere fisico".

La bottiglia, non il vino

Proteggere l'espressione fisica era comodo. Il copyright funzionava bene perché, a dispetto di Gutenberg, fare un libro era difficile. Per di più i libri congelavano il proprio contenuto in una forma che era altrettanto difficile da alterare che da riprodurre. Produrre e distribuire libri contraffatti erano attività vistose: non era poi così difficile pescare con le mani nel sacco chi le praticava. Infine, a differenza delle parole e delle immagini, i libri avevano una superficie solida sulla quale si poteva imprimere una breve testo di rivendicazione del copyright, il marchio dell'editore, e un prezzo.

La conversione dallo stato mentale a quello fisico era ancora più centrale nel caso dei brevetti. Fino a poco tempo fa, un brevetto era - alternativamente - la descrizione della forma cui certi materiali dovevano essere ridotti a certi scopi, oppure la descrizione del processo attraverso cui tale riduzione veniva operata. In ambo i casi, il nucleo del brevetto, concettualmente, era il risultato materiale. Se non si poteva produrre nessun oggetto utile a causa di qualche limitazione del materiale, il brevetto veniva negato. Né una bottiglia di Klein né una vanga di seta potevano essere brevettati. Doveva essere una cosa, e quella cosa doveva funzionare.

I diritti d'inventore e d'autore inerivano pertanto ad attività del mondo fisico. Non ti pagavano per le idee, ma per la capacità di trasformarle in realtà. A tutti gli effetti pratici, il valore stava nell'azione del diffondere e non nel pensiero diffuso.

In altri termini, era protetta la bottiglia, non il vino.

Quando l'informazione è senza supporto

Ora che l'informazione entra nel ciberspazio, dimora ancestrale della Mente, queste bottiglie stanno svanendo. Con l'avvento della digitalizzazione, è divenuto possibile sostituire tutte le forme precedenti di stockaggio dell'informazione con una meta-bottiglia: un tessuto complesso e altamente liquido formato da segni di zero e di uno.

Perfino le bottiglie mezzo fisiche e mezzo digitali cui ci siamo abituati - floppy disk, Cd-Rom, e tutte le altre confezioni di bit impacchettabili - dovranno scomparire via via che tutti i computer si collegano alla Rete globale. Può darsi che Internet non arrivi mai ad abbracciare tutte le Cpu del pianeta; intanto, però, gli utenti raddoppiano ogni anno, e ci si può aspettare che diventi il principale veicolo di informazione, e magari, alla fine, l'unico.

Quando la trasformazione sarà completata, tutti i beni dell'Era dell'Informazione - tutte le espressioni un tempo contenute nei libri o nelle pellicole cinematografiche o nelle newsletter - esisteranno solo come pensiero puro o come qualcosa di molto ma molto simile al pensiero puro: stati di voltaggio scagliati attraverso la Rete alla velocità della luce, in condizioni che si potranno osservare come luccicanti pixel o suoni trasmessi, ma che nessuno potrà toccare né dichiarare sua "proprietà" nel vecchio senso del termine.

Qualcuno potrebbe argomentare che l'informazione avrà bisogno di qualche manifestazione fisica, dovrà godere di un'esistenza magnetica nei titanici hard disk di qualche remoto server; ma questo genere di bottiglie non ha nessuna forma precisa e nessun significato personale.

Altri dirà che abbiamo avuto a che fare con dell'informazione fuor di bottiglia sin dagli inizi della radio. Questo è vero. Ma non si potevano catturare dall'etere beni immateriali e riprodurli con una qualità paragonabile a quella dei pacchetti materiali. Questo è divenuto possibile poco tempo fa, e si è fatto poco per affrontare tale trasformazione sotto l'aspetto giuridico e tecnico.

In generale, la questione del pagamento da parte dell'utente dei prodotti radiotrasmessi era irrilevante. In verità, i consumatori stessi erano il prodotto. I media del settore erano alimentati dai proventi della vendita agli inserzionisti dell'attenzione della loro audience, o dalle tasse attraverso lo Stato, o dalla piagnucolosa mendicità delle campagne annuali per le donazioni agli enti caritatevoli.

Tutti i modelli di finanziamento delle trasmissioni sono manchevoli. Il finanziamento da parte degli investitori pubblicitari o dello Stato ha quasi invariabilmente macchiato la purezza dei beni offerti al pubblico. Per giunta, il direct marketing sta gradatamente scalzando il modello basato sugli introiti pubblicitari.

I mezzi di trasmissione ci hanno dato un altro metodo di pagamento per un prodotto virtuale: i diritti che le emittenti pagano agli autori di canzoni attraverso organizzazioni quali l'Ascap e la Bmi* . Come membro dell'Ascap, vi posso assicurare che non è assolutamente un modello da imitare. I metodi per monitorare la maturazione dei diritti sono tremendamente approssimati. Non c'è nessun sistema parallelo per contabilizzare i flussi di reddito. Non funziona proprio, credetemi.

In ogni caso, senza i nostri vecchi metodi basati sulla definizione fisica dell'espressione delle idee, e senza nuovi e ben funzionanti modelli per le transazioni non fisiche, semplicemente non sappiamo come garantire un affidabile pagamento per il lavoro mentale. A peggiorare le cose, questo avviene in un periodo in cui la mente umana sta sostituendo la luce del sole e i depositi di minerali come fonte prima della nuova ricchezza.

Si deve aggiungere che la crescente difficoltà di far valere le attuali norme sul copyright e dei brevetti sta già mettendo a repentaglio la fonte ultima della proprietà intellettuale - la libera diffusione delle idee.

In altri termini: quando gli oggetti primi del commercio in una società sono tanto simili alla parola da esserne indistinguibili, e quando i metodi tradizionali per proteggerne la proprietà sono ormai diventati inefficaci, il tentativo di riparare con un'applicazione più ampia e più severa non potrà che minacciare la libertà di parola. Il più grande vincolo alle nostre future libertà civili potrebbe venire non dagli Stati, ma dagli uffici legali delle grandi imprese, intenti a proteggere con la forza ciò che non si può più proteggere mediante l'efficienza pratica o un generale consenso sociale.

Quando Jefferson e gli altri illuministi divisarono il sistema di norme che divenne poi il diritto americano del copyright, il loro obiettivo primario era quello di assicurare una vasta diffusione del pensiero, non difendere il profitto. Il profitto era il carburante che avrebbe portato le idee nelle biblioteche e nelle menti della nuova repubblica. Le biblioteche avrebbero acquistato i libri, ricompensando così gli autori per il loro lavoro nell'assemblare le idee; queste idee, altrimenti "incapaci di reclusione", sarebbero allora divenute accessibili gratis al pubblico. Ma quale può essere il ruolo delle biblioteche quando non ci sono i libri? E oggi, come può la società remunerare la distribuzione delle idee se non facendo pagare l'idea stessa?

A guardia delle frontiere del ciberspazio?

A complicare ulteriormente il problema, a scomparire non sono solo le "bottiglie" fisiche in cui era incorporata la proprietà intellettuale. La tecnologia digitale sta anche cancellando le giurisdizioni del mondo fisico, per sostituirle con le onde del ciberspazio, che non conoscono limiti e forse non conosceranno mai il diritto.

Nel ciberspazio, non ci sono confini nazionali e locali che contengano la scena del reato e determinino il metodo con cui sarà perseguito. Peggio: nessun chiaro accordo culturale definisce che cosa sia o non sia un reato. Le divergenze fondamentali e insolute tra le ipotesi sulla proprietà intellettuale dell'Occidente e dell'Asia possono solo essere esacerbate quando molte transazioni hanno luogo in entrambi gli emisferi e tuttavia, in un certo senso, in nessuno dei due.

Perfino nelle situazioni digitali più localizzate, competenza territoriale e responsabilità sono difficili da accertare. Un gruppo di editori musicali hanno intentato causa a CompuServe, nell'autunno del 1993, perché aveva permesso ai suoi utenti di scaricare alcune composizioni musicali in aree in cui altri utenti avrebbero potuto accedere ad esse. Visto che CompuServe in pratica non può esercitare un gran controllo sulla marea di bit che passa dall'uno all'altro dei suoi abbonati, non sembra giusto ritenerla responsabile di aver "pubblicato" quei lavori.

I concetti di proprietà, ricchezza e valore stanno cambiando in modo più radicale che in ogni altro tempo, o almeno da quando i sumeri per primi incisero segni cuneiformi su una tavoletta d'argilla e cominciarono a chiamare questo "mettere l'orzo nel granaio". Sono in pochissimi a rendersi conto dell'enormità di questa trasformazione, e di questi solo una piccolissima parte è composta da giuristi o legislatori.

Coloro che vedono i mutamenti devono preparare una risposta alla confusione giuridica e sociale che proromperà tra poco, quando gli sforzi per proteggere le nuove forme di proprietà con i vecchi metodi si riveleranno con più evidenza vani - e, di conseguenza, saranno posti in atto con sempre maggiore rigore.

La barbarie prossima ventura

L'umanità sembra oggi intenta a creare un'economia mondiale basata innanzitutto su beni che non assumono alcuna forma materiale. Nel fare ciò noi rischiamo di togliere di mezzo qualsiasi prevedibile collegamento fra i creatori e un equo compenso per l'utilità o il piacere che altri possono trovare nella loro opera creatrice.

Senza quel collegamento, e senza una radicale evoluzione della nostra coscienza per tener conto di ciò, ci si prepara un futuro di rabbia, tenzoni giuridiche ed evasione istituzionalizzata del pagamento - esclusi i casi in cui questo viene ottenuto mediante il puro e semplice uso della forza. Possiamo ritornare alla Barbarie della proprietà.

Nei periodi più bui della storia umana, la proprietà era in larga misura una questione militare. Proprietari erano coloro che avevano i più truci mezzi bellici, fossero i pugni o gli eserciti, insieme alla più risoluta volontà di adoperarli. Il possesso delle cose era il diritto divino degli assassini.

Al volgere del primo millennio dopo Cristo, l'emergere delle classi mercantili e dell'aristocrazia fondiaria impose lo sviluppo di un'intesa etica per la soluzione delle controversie sulla proprietà. Nel Medioevo governanti illuminati come Enrico II d'Inghilterra cominciarono a codificare questa common law non scritta in un canone registrato*. Tali leggi erano locali, il che non era poi molto importante, dal momento che esse riguardavano essenzialmente la proprietà terriera e immobiliare, che sono locali per definizione.

Le cose continuarono a stare così finché la principale scaturigine della ricchezza rimase l'agricoltura, ma con l'aurora della Rivoluzione industriale l'umanità cominciò a concentrarsi sui mezzi non meno che sui fini. Gli strumenti acquisirono una nuova rilevanza sociale; grazie al loro stesso sviluppo, divenne possibile duplicarli e distribuirli in grandi quantità.

Per incoraggiare la loro invenzione, nella maggior parte dei Paesi occidentali furono sviluppate leggi sul diritto d'autore e sui brevetti. Queste leggi servivano allo scopo delicato di portare le creazioni della mente nel mondo reale, dove potevano essere usate - ed entrare nella mente di altri - pur garantendo ai loro creatori un compenso per il loro uso da parte di altri. Come si è detto sopra, tanto le leggi quanto la pratica che si sviluppò sulla loro base ruotavano intorno all'espressione fisica.

Poiché oggi è possibile far passare le idee da una mente all'altra senza mai renderle fisiche, noi rivendichiamo la proprietà delle idee stesse e non più semplicemente delle loro espressioni. E poiché allo stesso modo è oggi possibile creare strumenti utili che non hanno alcuna forma fisica, siamo arrivati a brevettare le astrazioni, sequenze di eventi virtuali e formule matematiche - la proprietà meno materiale che si possa concepire.

In certe aree, ciò riduce il diritto di proprietà in una condizione di tale ambiguità che la proprietà, ancora una volta, va a chi può mettere insieme l'esercito più potente. La sola differenza è che adesso l'esercito è formato da avvocati. Con la minaccia del purgatorio senza fine di una causa civile, che per alcuni è destino peggiore della stessa morte, costoro rivendicano un diritto di proprietà su qualunque pensiero che sia mai passato dentro un qualsiasi cranio che si aggiri entro i limiti dell'impresa che servono. Si comportano come se queste idee sorgessero in splendido isolamento, autonome da ogni precedente pensiero umano. E fanno finta che pensare a un prodotto sia in qualche modo altrettanto valido che costruirlo, distribuirlo e venderlo.

Ciò che un tempo era considerato una risorsa comune dell'umanità, distribuita fra le menti e le biblioteche del mondo, alla medesima stregua dei fenomeni naturali, viene ora recintato e rogitato. E' come se fosse nato un nuovo genere di impresa che rivendicasse la proprietà dell'aria.

Il Far West del ciberspazio

Che cosa bisogna fare? Mettersi a ballare sulla tomba del diritto d'autore e d'inventore sarà magari tristamente divertente, ma non risolve gran che, specialmente dato che ben pochi sono pronti a riconoscere che l'occupante di questa tomba è davvero morto, e sono invece in tanti a cercare di tenere in piedi con la forza ciò che non si sostiene più in virtù del consenso popolare.

I legalitari si disperano perché la presa sta loro sfuggendo, e per reazione cercano di estendere la sua portata. In verità, gli Stati Uniti e altri proponenti del Gatt stanno facendo dell'adesione al nostro moribondo sistema di protezione della proprietà intellettuale una condizione per far parte del grande mercato delle nazioni. Per esempio, alla Cina sarà negato lo status di nazione più favorita se non accetterà di far rispettare una serie di principi estranei alla sua tradizione culturale - principi che non è più possibile applicare nemmeno nella loro terra di origine.

Se il mondo fosse un po' più perfetto, daremmo prova di saggezza a proclamare una moratoria sulle liti, la legislazione e i trattati internazionali in questo campo, fino al momento in cui avremo una più chiara percezione dei termini e delle condizioni in cui si attua l'imprenditorialità nel ciberspazio. Idealmente, le leggi ratificano un consenso sociale già sviluppato. Più che il Contratto Sociale, in prima battuta esse rappresentano una serie di promemoria che emergono da diversi milioni di atti di interazione fra esseri umani*.

Gli umani non hanno ancora abitato il ciberspazio abbastanza a lungo o in sufficiente diversità per aver sviluppato un Contratto Sociale che si conformi alle strane condizioni di quel mondo. Le leggi emanate avanti il consenso di solito favoriscono i pochi già ben inseriti, che possono farle votare, e non la società nel suo insieme.

Nella misura in cui il diritto e la pratica sociale consuetudinaria esistono in quell'ambiente, essi sono già in pericolosa discordanza. Le leggi che vietano la riproduzione senza licenza del software commerciale sono chiare, severe e assai raramente osservate. Le norme contro il pirataggio del software sono così impossibili da far rispettare in pratica, e la loro violazione è divenuta socialmente così accettabile, che solo una piccola minoranza si sente obbligata a conformarvisi, per paura o per etica. Quando tengo conferenze su questo tema, chiedo sempre quante persone fra il pubblico possono onestamente asserire di non tenere nei loro hard disk del software non autorizzato. Mai viste alzarsi più del 10 per cento delle mani.

Ogni volta che esiste una divergenza così profonda tra il diritto e la pratica sociale, non è mai la società ad adattarsi. Di fronte alla rapida marea della consuetudine, la pratica attuale degli editori di software di incastrare un piccolo numero di capri espiatori è così evidentemente capricciosa da diminuire ancor più il rispetto per la legge.

Parte della diffusa noncuranza per il copyright del software commerciale scaturisce dall'incapacità del legislatore di comprendere le condizioni in cui si inserisce la norma. Ipotizzare che un sistema normativo fondato sul mondo fisico possa funzionare in un ambiente così differente com'è il ciberspazio è una follia che sarà pagata da chiunque farà business in futuro.

Come illustrerò tra breve in dettaglio, la proprietà intellettuale svincolata è molto differente dalla proprietà fisica, né può essere protetta come se se le differenze non esistessero. Per esempio, se noi continuiamo a pensare che il valore sia basato sulla scarsità, come per gli oggetti del mondo fisico, faremo leggi del tutto contrarie alla natura dell'informazione, che in molti casi aumenta di valore con la distribuzione!

Le istituzioni grandi e poco propense al rischio rispetteranno con maggiore probabilità le regole e risentiranno della loro "onestà". Un numero sempre maggiore di avvocati e di denaro saranno impiegati per proteggere i loro diritti o scalzare quelli degli avversari, con il risultato che la loro capacità di creare nuova tecnologia sarà congelata, perché ogni mossa le precipiterà in una guerra di tribunali.

La fede nel diritto non sarà una strategia efficace per le imprese ad alta tecnologia. Il diritto si adatta per piccole variazioni incrementali, a un ritmo che la cede in lentezza solo ai movimenti geologici. La tecnologia avanza a balzi, un po' come quelli dell'evoluzione biologica, ma accelerati in modo grottesco. Le condizioni del mondo reale seguiteranno a cambiare in modo vertiginoso, lasciando sempre più indietro e sempre più confuso il diritto. La discordanza potrebbe rivelarsi impossibile da sanare.

Settori promettenti, basati sui prodotti puramente digitali, o nasceranno già semiparalizzati (come il settore multimedia), o continueranno a rifiutare eroicamente il gioco della proprietà.

Negli Stati Uniti si può già vedere un'economia parallela: essa si sviluppa sopra tutto fra le imprese piccole e rapide, che proteggono le loro idee entrando sul mercato più in fretta dei loro concorrenti impegnati a diffondere il timore a colpi di citazioni in giudizio.

Forse coloro che sono parte del problema si porranno da sé in quarantena nelle aule dei tribunali, mentre coloro che fanno parte della soluzione creeranno una società basata, all'inizio, sul pirataggio e l'azione non autorizzata. Può anche darsi che quando l'attuale sistema della proprietà intellettuale sarà crollato, come sembra inevitabile, nessun'altra struttura giuridica prenderà il suo posto.

Però qualcosa dovrà succedere. In fin dei conti, la gente fa affari. Se un'unità monetaria cessa di avere significato, gli affari si fanno mediante il baratto. Quando le società si sviluppano al di fuori del diritto, esse sviluppano leggi non scritte che sono loro proprie, sviluppano una loro prassi e propri sistemi etici. La tecnologia può disfare il diritto, ma offre anche metodi per ripristinare i diritti della creatività.

Tassonomia dell'informazione

Mi pare che a questo punto la cosa più produttiva sia gettare uno sguardo nella natura di ciò che stiamo cercando di proteggere. Quanto ne sappiamo veramente sull'informazione e sulle sue abitudini?

Quali sono le caratteristiche essenziali della creazione sottratta ad ogni vincolo? In che cosa si differenzia dalle precedenti forme di proprietà? Quante delle ipotesi su di essa erano in realtà ipotesi sui suoi contenitori, piuttosto che sul misterioso contenuto? Quali ne sono le diverse specie e in quale maniera si prestano a un controllo? Quali tecnologie si riveleranno utili per creare nuove bottiglie virtuali per sostituire le vecchie bottiglie fisiche?

L'informazione è, questo pare chiaro, intangibile per natura e difficile da definire. Come altri fenomeni ugualmente profondi quali la luce o la materia, è un ricettacolo naturale per i paradossi. E' molto utile concepire la luce come una particella e allo stesso tempo un'onda. Così una comprensione dell'informazione può emergere dall'astratto confluire delle sue varie proprietà, quali possono essere descritte dalle tre affermazioni che seguono:

- L'informazione è un'attività.

- L'informazione è una forma di vita.

- L'informazione è una relazione.

Nei capitoli successivi le esaminerò una per una.

L'informazione è un'attività

L'informazione è un verbo, non un sostantivo. Liberata dai suoi contenitori, l'informazione si presenta con tutta evidenza come qualcosa di diverso da una cosa. In effetti, è qualcosa che succede nel campo dell'interazione fra menti, od oggetti, o altre parti di informazione.

Gregory Bateson, aggiornando la teoria dell'informazione di Claude Shannon, ha detto: "L'informazione è una differenza che fa differenza". Ciò vuol dire che l'informazione esiste realmente solo in questo delta. Fare quella differenza è un'attività che ha luogo all'interno di una relazione. L'informazione è un'azione che occupa tempo molto più di quanto non sia lo stato di una cosa che occupa uno spazio fisico, come i beni materiali. E' il dribbling, non il pallone, la danza, non la ballerina.

L'informazione è sperimentata, non posseduta. Perfino quando è stata incapsulata in qualche forma statica come un libro o un hard disk, l'informazione rimane qualcosa che ti succede nel momento in cui tu decomprimi mentalmente quella forma statica traducendola dal codice in cui è stata immagazzinata. Sia che avvenga al ritmo di qualche gigabit al secondo o di qualche parola al minuto, l'effettiva decodifica è un processo che deve essere posto in atto con e su una mente, un processo che deve svolgersi nel tempo.

Qualche anno fa comparve sul Bulletin of Atomic Scientists una vignetta che illustrava alla perfezione questo punto. Nel disegno, un rapinatore punta la sua pistola su un tipo con gli occhiali che al solo guardarlo t'immagini benissimo che debba avere immagazzinata nella sua testa un sacco di informazione. "Svelto!", dice il rapinatore: "Consegnami tutte le tue idee!"

L'informazione deve muoversi. Si dice che gli squali anneghino se smettono di nuotare, e lo stesso si può dire senza troppo errare dell'informazione. L'informazione che non si muove smette di esistere, se non allo stato potenziale… perlomeno fino all'istante in cui le si permette di muoversi ancora. Per questo motivo la pratica di accumulare l'informazione, comune fra le burocrazie, è un portato particolarmente deleterio dei sistemi di valore basati sulla fisicità.

L'informazione è trasmessa mediante la propagazione, non mediante la distribuzione. La maniera con cui l'informazione si diffonde è a sua volta ben differente dalla distribuzione dei beni fisici. Si muove più come qualcosa che si trova in natura che come qualcosa che esce da una fabbrica. Può legarsi come una fila di pezzi di domino o crescere a guisa di frattale, come la brina che si forma su una finestra, ma non può essere spedita in giro per container, se non nella misura in cui è incorporata in qualche supporto materiale. Se si sposta, non lascia dietro di sé il vuoto, ma una qualche traccia.

La distinzione economica cruciale tra l'informazione e le proprietà materiali è che l'informazione può essere trasferita senza cessare di essere posseduta dal proprietario originale. Se ti vendo il mio cavallo, dopo che te l'ho venduto non lo posso più cavalcare. Se ti vendo ciò che so, poi lo sappiamo tutti e due.

L'informazione è una forma di vita

L'informazione vuole essere libera. Si riconosce a Stewart Brand il merito di avere ben formulato l'ovvio con questa elegante affermazione, che riconosce tanto il naturale desiderio dei segreti di essere rivelati quanto il fatto che possano, prima di tutto, essere capaci di avere qualcosa che assomiglia a un desiderio.

Il biologo e filosofo inglese Richard Dawkins ha proposto l'idea dei "mnememi", pattern di informazione che si autoriproduce all'interno dei sistemi ecologici mentali con modalità molto simili a quelle delle forme di vita.

Io credo che siano forme di vita sotto ogni aspetto, esclusa la loro dipendenza dagli atomi di carbonio. Si autoriproducono, interagiscono con ciò che li circonda, mutano, persistono. Si evolvono per colmare le nicchie vuote dei loro ambienti locali, che sono, in questo caso, i sistemi di credenze e le culture circostanti all'interno dei loro ospiti, cioè dentro di noi.

L'informazione è deteriorabile. Con l'eccezione di alcuni rari classici, la maggior parte dell'informazione è come le derrate agricole. La sua qualità si deteriora rapidamente con il tempo e con l'allontanamento dal luogo dove è prodotta. Ma anche qui, il valore è qualcosa di altamente soggettivo e condizionale. I giornali di ieri sono preziosi per lo storico; anzi, più sono vecchi, maggiore diventa il loro pregio. D'altro canto, un broker di materie prime potrebbe considerare irrilevante l'annuncio di qualcosa che è avvenuto più di un'ora avanti.

L'informazione è una relazione

Il significato ha un valore ed è unico in ogni caso. Nella maggior parte dei casi, noi assegniamo all'informazione un valore che si basa sulla sua significatività. Il posto ove dimora l'informazione, il sacro momento in cui la trasmissione diviene ricezione, è una regione con parecchie caratteristiche mutevoli. E mutano anche i suoi olezzi, in dipendenza dalla relazione tra chi trasmette e chi riceve, dall'intensità della loro interazione.

Ciascuna delle relazioni di questo tipo è unica. Perfino quando a trasmettere è un'emittente unidirezionale, come la filodiffusione o la televisione, non si può dire che il ricevente sia passivo. Ricevere dell'informazione è spesso un atto non meno creativo che generarla.

Il valore di ciò che viene inviato dipende interamente dal grado in cui ogni ricettore individuale ha gli strumenti - una terminologia condivisa, l'attenzione, l'interesse, il linguaggio, il paradigma - che sono necessari per rendere significativa l'informazione.

La comprensione è un elemento critico che viene spesso trascurato nello sforzo di trasformare l'informazione in una commodity. Qualunque insieme di fatti può costituire un ammasso di dati: siano utili o superflui, comprensibili o imperscrutabili, connaturati o irrilevanti. I computer possono sputacchiare dati per due giorni e due notti di fila, e il risultato può essere messo in vendita come informazione. Ma informazione questi dati possono essere oppure non essere. Solo un essere umano può riconoscere il significato che distingue l'informazione dai dati.

In effetti, l'informazione (nel senso economico di questa parola) consiste di dati che sono passati attraverso una particolare mente umana e sono stati trovati significativi all'interno di quel particolare contesto. L'informazione di uno è una massa di schifosi dati per l'altro. Se sei un antropologo, le mie tabelle particolareggiate degli schemi di parentela dei tadasay per te rappresentano un'informazione critica. Se invece sei un banchiere di Hongkong, potrebbero sembrarti una semplice accozzaglia di dati.

La familiarità ha un valore maggiore della scarsità. Nel dominio dei beni fisici, c'è una correlazione diretta fra la scarsità e il valore. L'oro vale più del grano, anche se non te lo puoi mangiare. Con l'informazione spesso il rapporto funziona in senso contrario. Molti beni soft aumentano di valore quando diventano più comuni. Nel mondo dell'informazione, la familiarità è un asset importante. E' sovente esatto che la maniera migliore di accrescere la domanda per il tuo prodotto è darlo via gratis.

Non ha sempre funzionato così con lo shareware, è vero. Ma si può sostenere che esiste una relazione diretta fra le vendite di un particolare software per computer e il numero delle copie pirata in circolazione. I programmi largamente pirateggiati come il Lotus 1-2-3 e il WordPerfect diventano lo standard di riferimento e beneficiano della legge dei rendimenti crescenti dovuta alla familiarità.

Per ciò che riguarda il mio proprio prodotto soft, le canzoni rock, non c'è discussione che la band per la quale le scrivo, i Grateful Dead, abbia accresciuto enormemente la propria popolarità dandole via gratis. Abbiamo permesso alla gente di registrare i nostri concerti fin dai primi anni Settanta. Nonché diminuire, la domanda per il nostro prodotto è aumentata al punto da fare di noi il gruppo che attira il più grande numero di spettatori in America. Questo è da attribuirsi almeno in parte alla popolarità creata dai nastri registrati liberamente.

E' vero che non ricevo neanche un cent di diritti dai milioni di copie delle mie canzoni estratte dai concerti, ma non mi pare una buona ragione per lamentarmi. Solo un Grateful Dead può suonare una canzone dei Grateful Dead. Sicché, se vuoi l'esperienza di una canzone e non la sua esile proiezione su nastro, devi comprare il biglietto per uno dei nostri concerti. In altre parole, la protezione della nostra proprietà intellettuale deriva dal fatto che noi siamo la sola fonte di essa nel mondo reale.

L'esclusività ha valore. Il problema di un modello che rovescia il rapporto tra scarsità fisica e valore sta nel fatto che qualche volta il vecchio rapporto è ancora più che valido. Il possesso in esclusiva di certi fatti li rende più utili. Se tutti conoscono qualche particolare circostanza che può far salire il prezzo di un'azione, l'informazione in proposito è priva di valore.

Ancora una volta, però, il fattore critico di solito è il tempo. Non importa niente se questo genere di informazione alla fine diventa di dominio pubblico. Ciò che conta è essere tra i primi ad averla e ad agire sulla sua scorta. Un possente segreto di rado rimane segreto. Però lo rimane abbastanza a lungo da avvantaggiare i suoi detentori originari.

Il punto di vista e l'autorità hanno valore. Un mondo fatto di realtà fluttuanti e di mappe contraddittorie premia i commentatori le cui mappe sembrano vestire il territorio in modo attillato, e forniscono quindi risultati prevedibili per coloro che le usano.

Nell'informazione estetica, si parli di poesia o di rock 'n' roll, la gente è disposta a comprare un nuovo prodotto di un artista a scatola chiusa se i lavori precedenti le hanno dato un'esperienza piacevole.

La realtà è un montaggio. La gente è disposta a pagare per l'autorità di coloro il cui montaggio della realtà sembra più aderente alla loro esperienza. Una volta di più, il punto di vista è un asset che non può essere rubato né duplicato. Nessuno vede il mondo come lo vede Esther Dyson, e la commissione che lei è in grado di far pagare per la sua newsletter è, nella sostanza, il corrispettivo per il privilegio di guardare il mondo attraverso i suoi occhi del tutto unici.

Il tempo sostituisce lo spazio. Nel mondo fisico, il valore dipende strettamente dal possesso, che è una vicinanza nello spazio. Si possiede ciò che ricade all'interno di certe barriere fisiche. La capacità di agire su ciò che sta all'interno di queste linee di demarcazione direttamente, esclusivamente, e nel modo che più aggrada - ecco il principale diritto di proprietà. La relazione fra il valore e la scarsità è una relazione nello spazio.

Nel mondo virtuale, la vicinanza nel tempo è una determinante del valore. Un prodotto informazionale di solito è tanto più pregiato quanto più vicini gli acquirenti si possono piazzare al momento della sua espressione. Molti tipi di informazione degradano rapidamente col tempo o con la quantità di atti di copiatura. La loro rilevanza svanisce via via che cambia il territorio di cui sono una mappa. Ogni allontanamento dal punto in cui sono prodotti aumenta il rumore e fa perdere ampiezza di banda.

Ascoltare una cassetta dei Grateful Dead non è davvero la stessa esperienza che assistere a un concerto dei Grateful Dead. Più ci si avvicina alla sorgente di un flusso d'informazione, più ci si può aspettare di trovarvi un quadro accurato della realtà. In un'era di facile riproduzione, le astrazioni informazionali delle esperienze popolari si propagheranno fuori dai loro momenti generativi fino a raggiungere tutti coloro che sono interessati. Ma è abbastanza facile limitare l'esperienza reale dell'evento desiderabile, si tratti di un kappaò pugilistico o di un'esibizione virtuosistica alla chitarra, a coloro soli che sono disposti a pagare per essere ammessi.

La protezione attraverso l'esecuzione. Nella cittadina di bifolchi da cui vengo io non ti fanno i complimenti per le pure idee. Ti giudicano da ciò che riesci a farne. Via via che i ritmi della vita accelerano, penso che l'esecuzione è la miglior protezione per i concetti che diventano prodotti fisici. O per dirla come l'ha detta Steve Jobs, real artists ship, gli artisti autentici consegnano il prodotto. A riportare le maggiori vittorie di solito è colui che arriva sul mercato per primo e con una forza sufficiente per mantenere il suo vantaggio.

Tuttavia, man mano che ci fissiamo sul commercio dell'informazione, molti di noi sembrano pensare che la sola originalità basti per creare valore, e meriti quindi, sulla scorta della legge, un flusso costante di remunerazione. In effetti, la maniera migliore di proteggere la proprietà intellettuale è farci qualcosa. Non basta inventare e brevettare; occorre anche innovare. Qualcuno ha rivendicato la paternità dell'invenzione del microprocessore: suo, non di Intel, sarebbe il brevetto. Può darsi sia vero. Certo che se avesse veramente cominciato a consegnare microprocessori prima di Intel la rivendicazione avrebbe ben altra forza.

L'informazione è premio a sé stessa. E' ormai un luogo comune dire che il denaro è informazione. Se togliamo i Krugerrand, il resto che ti danno sui tassì e il contenuto delle valigette che si scambiano i narcotrafficanti, la maggior parte del denaro che circola nel mondo è fatto di zeri e di uno. L'offerta globale di moneta sciaguatta nella Rete globale, fluida come il tempo atmosferico. E' anche evidente che l'informazione riveste ormai nella produzione mondiale della ricchezza un ruolo analogo a quello che avevano un tempo la terra e la luce solare.

Meno evidente è il grado in cui l'informazione sta assumendo un valore intrinseco, non come mezzo per acquisire qualcosa ma come oggetto essa stessa dell'acquisizione. Immagino che in modo meno esplicito sia sempre stato così. In politica e nel mondo accademico, potere e conoscenza sono sempre stati strettamente collegati.

Ma che cosa succede oggi? Ogni volta che acquistiamo dell'informazione con del denaro, vediamo che lo scambio è fra due tipi diversi di informazione digitalizzata, bit contro bit. L'informazione-denaro acquisita vendendo informazione-merce viene poi il più delle volte spesa per acquistare altra informazione-merce. Perché allora non barattare direttamente l'informazione-merce con altra informazione-merce, senza passare attraverso una valuta?

La contabilità non ne è avvantaggiata, perché è difficile che gli scambi di questo tipo possano quadrare fino all'ultima unità monetaria. Ciò nonostante, ben poco di quanto gli americani di classe media acquistano ha a che fare con la sopravvivenza. Comperiamo bellezza, prestigio, esperienza, istruzione, e tutti gli oscuri piaceri del possedere. Molte di queste cose non solo possono essere espresse in termini non materiali, ma possono anche essere acquisite con mezzi non materiali.

E poi ci sono gli inenarrabili piaceri dell'informazione stessa, le gioie dell'apprendere, sapere e insegnare; la strana e gradevole sensazione dell'informazione che fluisce dentro e fuori di te. Giocare con le idee è un'attività ricreativa per la quale la gente è disposta a pagare parecchio, a giudicare dal mercato che hanno i libri e i seminari a pagamento. Probabilmente spenderemmo anche di più per simili attività se non avessimo tante opportunità di pagare le idee con altre idee.

Questo spiega buona parte del lavoro collettivo volontario che riempie gli archivi, i gruppi di lavoro e i data base di Internet. I suoi abitatori non lavorano gratis, come da molti si ritiene. Ricevono un pagamento che non consiste di denaro. E' un'economia fatta quasi per intero di informazione.

Questa potrebbe diventare la forma principale del commercio umano, e se noi seguitiamo a modellare l'economia su una base strettamente monetaria, potremmo finire alquanto fuori strada.

Farsi pagare nel ciberspazio. In quale modo tutto quanto si è visto sopra si ricollega alla crisi della proprietà intellettuale è una questione sulla quale ho appena cominciato ad esercitare la mia mente. Si crea un nuovo paradigma se si comincia a guardare all'informazione con occhi scevri da pregiudizi, e si vede quanto piccola è la parte di essa che assomiglia ai pani di ghisa o al prosciutto, e quanto numerosi saranno i casi giuridici che si ammonticchieranno nei tribunali se si persiste a trattare l'informazione come un bene materiale.

L'ho già detto: queste antiquate torri saranno rovine fumanti nel corso del prossimo decennio, e noi minatori della mente non avremo altra scelta se non quella di affidarci a nuovi sistemi che funzionino davvero.

Non sono in realtà così pessimista riguardo alle nostre prospettive come i lettori di questa geremiade potrebbero pensare. Qualche soluzione emergerà. La natura aborre il vuoto: e il commercio lo stesso.

In verità, uno degli aspetti della frontiera elettronica che ho trovato più interessante - la ragione per cui Mitch Kapor ed io abbiamo usato quell'espressione, "frontiera elettronica", per dare un nome alla nostra fondazione - è la somiglianza con il Far West americano del secolo scorso. La frontiera elettronica, come il Far West, preferisce le strutture sociali che emergono dalle condizioni in atto a quelle imposte dall'esterno.

Fino al momento in cui il West non fu colonizzato e "civilizzato", nel nostro secolo, l'ordine era stabilito in base a un codice non scritto che aveva tutta la flessibilità della common law e niente della rigidità della legge codificata. L'etica era più importante delle regole. Le intese erano preferite alle leggi, che in ogni caso erano abbastanza impossibili da far rispettare.

Sono convinto che il diritto, così come lo conosciamo, fu sviluppato per proteggere gli interessi sorti nelle due ondate economiche che Alvin Toffler ha correttamente identificato in The Third Wave. La prima ondata si fondava sull'agricoltura e richiedeva un diritto capace di regolare la proprietà del principale fattore di produzione, la terra. Con la seconda ondata l'industria manifatturiera divenne la molla principale dell'economia, e la struttura del diritto moderno prese a ruotare attorno le istituzioni centralizzate che avevano bisogno di proteggere le loro riserve di capitale e lavoro.

Entrambi questi sistemi economici richiedevano stabilità. Il loro diritto era progettato per resistere al mutamento e assicurare una certa equità distributiva nella cornice di una società abbastanza statica. Le nicchie vuote dovevano essere circoscritte per mantenere la stabilità che era necessaria, a seconda dei casi, per la gestione della terra o la formazione del capitale.

La terza ondata è quella ai cui albori ci troviamo adesso. L'informazione si sostituisce alla terra e al capitale e l'informazione prospera in un ambiente molto più fluido e adattabile. La terza ondata porterà, con ogni verisimiglianza, una trasformazione fondamentale nei propositi e nei metodi del diritto che governerà la proprietà intellettuale.

Il territorio stesso - l'architettura della Rete - può giungere a svolgere molti dei compiti che nel vecchio sistema era necessario fossero affidati all'imposizione giuridica. Per esempio, può non essere il caso di garantire costituzionalmente la libertà di espressione in un ambiente dove, nelle parola del cofondatore dell'Electronic Frontier Foundation John Gilmore, "la censura è considerata un malfunzionamento*" e le idee proscritte sono dirottate per vie traverse che la eludono.

Analoghi meccanismi di riequilibrio potranno sorgere per appianare le discontinuità sociali che in precedenza richiedevano l'intervento della giustizia. Sulla Rete, queste differenze è probabile siano incastonate in un continuum che unisce più che dividere.

Ad onta del loro fiero abbarbicarsi alla vecchia struttura giuridica, le imprese che commerciano in informazione dovranno probabilmente constatare che la crescente incapacità di affrontare le controversie tecnologiche non troverà rimedio nei tribunali: questi non riusciranno a produrre verdetti abbastanza predicibili da supportare le intraprese a lungo termine. Qualunque lite diverrà un po' come una partita di roulette russa.

Le norme adattative o non codificate saranno anche "rapide, imprevedibili e fuori controllo", ma nella situazione descritta hanno migliori chance di portare a qualcosa che assomigli alla giustizia. E in effetti si possono già vedere le nuove prassi che aderiscono alle condizioni del commercio virtuale. Le forme di vita dell'informazione stanno evolvendo metodi per proteggere la loro riproduzione.

Per esempio, se è vero che le clausole scritte in caratteri microscopici sull'imballaggio di un dischetto messo in commercio elencano con molta pignoleria tutto ciò che si richiede da tutti coloro che lacereranno l'involucro, pochi fra coloro che le leggono poi le seguono alla lettera. E con tutto questo il software per computer rimane uno fra i settori prosperi dell'economia americana.

Come mai? Semplicemente perché la gente alla fine lo compra, il software che davvero usa. Una volta che un programma diventa centrale nel tuo lavoro, è ovvio che tu desideri averne la versione più aggiornata, la migliore assistenza, i manuali autentici, e tutti i privilegi collegati alla proprietà. Tali considerazioni pratiche, in assenza di una norma operativa, diventano sempre più importanti nel far sì che uno possa essere pagato per ciò che si potrebbe facilmente ottenere per niente.

Sono del tutto convinto che a volte si compri del software per motivi etici o per l'astratta consapevolezza che a non comprarlo si finirà per provocare la fine della sua produzione. Voglio però lasciar fuori queste motivazioni dal campo di indagine. La mancanza della norma giuridica provocherà sicuramente il ritorno della norma etica come principio ordinatore delle interazioni sociali, ma non ho qui lo spazio per argomentare su questo.

Penso tuttavia si possa ritenere che il compenso per i prodotti software sarà determinato, come nell'esempio visto sopra, da considerazioni pratiche, coerenti con la vera natura dell'informazione digitale: dove si trova in essa il valore, e come essa sia suscettibile di essere tanto manipolata quanto protetta dalla tecnologia.

L'enigma, certo, rimane enigma: si cominciano però a intravedere le direzioni dalle quali potrebbero emergere le soluzioni. Che saranno almeno in parte basate sull'ampliamento delle pratiche già in atto.

La relazione e i suoi strumenti. Credo che un'idea sia essenziale per comprendere il commercio liquido: l'economia dell'informazione, in assenza di oggetti, si fonderà più sulla relazione che sul possesso.

Un modello già esistente per il futuro trasporto della proprietà intellettuale è la performance in tempo reale, un mezzo attualmente usato solo nel teatro, nella musica, nelle conferenze e nella pedagogia. Ritengo che il concetto di performance si espanderà fino a includere la maggior parte dell'economia dell'informazione, dalle telenovelas multitrasmesse alle analisi finanziarie. In questi casi lo scambio commerciale assomiglierà di più alla vendita di biglietti per uno spettacolo continuo che all'acquisto di un gnocco discreto di ciò che viene rappresentato.

L'altro modello esistente, ovviamente, è il servizio. L'intera classe dei professionisti - dottori, avvocati, consulenti, architetti e via dicendo - sono già pagati direttamente per la loro proprietà intellettuale. Che bisogno c'è del copyright se ti pagano l'onorario in anticipo?

In effetti, sin verso la fine del secolo XVIII questo modello era applicato a gran parte di ciò che oggi è sottoposto a copyright. Prima che la creazione fosse industrializzata, gli scrittori, i compositori e gli artisti producevano i propri lavori stando al servizio di uno sponsor. Senza oggetti da distribuire ai mercati di massa, la gente creativa tornerà a una condizione un po' simile a questa, tranne che serviranno molti clienti, non uno solo.

Stiamo già assistendo all'emergere di imprese che basano la propria esistenza sul supporto e sul miglioramento delle proprietà soft che creano piuttosto che sulla vendita di esse in pezzi ben confezionati.

La nuova impresa di Trip Hawkins, la 3DO, che crea e dà in licenza d'uso tool multimediali, è un chiaro esempio di questo. La 3DO non intende produrre alcun software commerciale né alcun apparecchio di uso per i consumatori. Intende, invece, agire come una specie di organismo privato per la fissazione di standard, mediando fra i produttori di software e di apparecchiature, che saranno i loro licenziatari. Essa offrirà un punto di incontro per le relazioni fra un vasto spettro di entità.

In ogni caso, che uno concepisca sé stesso come un prestatore di servizi o come l'esecutore di una performance, la protezione futura della sua proprietà intellettuale dipenderà dalla capacità di controllare la propria relazione con il mercato - una relazione che con ogni verisimiglianza vivrà e crescerà nel tempo per tutto un periodo.

Il valore della relazione risiederà nella qualità della performance, nell'unicità del punto di vista, nella validità del know how posseduto, nella sua rilevanza per il mercato, e - a sottendere tutto questo! - nella capacità di quel mercato di accedere al servizio creativo rapidamente, con facilità e in modo interattivo.

Interazione e protezione. L'interazione diretta varrà in futuro ad assicurare buona parte della protezione della proprietà intellettuale: anzi, lo sta già facendo da qualche tempo. Nessuno sa quanti pirati del software abbiano comprato copie legittime dei programmi dopo aver chiamato l'editore per ottenere un supporto tecnico e aver offerto qualche prova di aver acquistato il software regolarmente, ma ritengo che il numero sia alto.

Lo stesso genere di controllo si applicherà alle relazioni del tipo "domanda e risposta" fra le persone autorevoli (o gli artisti) e coloro che hanno bisogno della loro professionalità. Le newsletter, le riviste, i libri saranno integrati dalla capacità dei loro abbonati di porre direttamente qualche domanda ai loro autori.

L'interattività sarà una merce vendibile anche in assenza di un diritto d'autore. Via via che la gente mette su casa nella Rete e si approvvigiona di informazione direttamente là dove viene prodotta, saltando la fase di filtrazione da parte dei grandi media centralizzati, essa cercherà di sviluppare la medesima capacità interattiva di sondare la realtà che solo l'esperienza ha dato loro in passato. L'accesso dal vivo a questi distanti "occhi e orecchie" sarà molto più facile da far pagare che l'accesso a masse statiche di informazione immagazzinata ma facile da riprodurre.

Nella piuparte dei casi, il controllo poggerà sulla restrizione dell'accesso all'informazione più fresca e a banda più larga*. Il problema sarà quello di definire il biglietto, la località, l'esecutore della performance e l'identità del possessore del biglietto. Queste definizioni, ritengo, saranno plasmate dalla tecnologia, non dal diritto. Il più delle volte la tecnologia che definirà tutto questo sarà la crittografia.

Imbottigliamento crittografico. La crittografia, come ho detto fin troppe volte, è il "materiale" di cui saranno fatte le mura, i confini e le bottiglie del ciberspazio.

E' chiaro che la crittografia, al pari di ogni altro metodo puramente tecnico per proteggere la proprietà, presenta qualche problema. Mi è sempre sembrato che più tecnologia usi per tenere al riparo le tue ricchezze, più rischi di trasformare il tuo santuario in un bersaglio. Nella mia città di origine la gente lascia le chiavi delle auto nel cruscotto e le chiavi di casa nemmeno sa che esistono. Per questo mi pare che il più efficace ostacolo contro il crimine sia una società con un'etica virginalmente intatta.

Lo ammetto, non è questa la società in cui la maggior parte di noi vive. Però col fidarsi molto delle barriere e poco della coscienza si finisce col fare dell'intrusione e del furto non più un reato ma uno sport. E lo vediamo già nelle scorribande digitali degli hacker.

Mi sento anche di affermare che gli sforzi iniziali per proteggere il copyright digitale mediante la protezione dalla copiatura abbiano contribuito alla presente situazione, in cui la maggior parte degli utenti informatici, per il resto perfettamente onesti, si fanno pochi scrupoli morali a possedere software pirateggiato.

Invece di coltivare tra i neocompiuterizzati un senso di rispetto per il lavoro dei colleghi, l'iniziale affidamento sulla protezione dalla copiatura ha prodotto, in modo subliminale, l'idea che l'essere stati capaci di forzare un pacchetto di software conferisca in certo qual modo il diritto di usarlo. Limitati dall'abilità tecnica più che dall'etica, molti si sentirono presto liberi di fare qualunque cosa riuscissero a fare passandola liscia. Questo continuerà ad essere una passività potenziale del sistema di commercio digitale basato sulla crittografia.

Ricordiamoci anche che la protezione contro la copiatura è stata rigettata dal mercato nella maggior parte dei settori. Parecchi degli attuali sforzi per usare piani di protezione fondati sulla crittografia probabilmente subiranno il medesimo fato. La gente non sopporterà troppe cose che rendano i computer più difficili da usare di quanto già non siano, e senza alcun beneficio per l'utente.

Ciononostante, la crittografia ha già dimostrato una certa rude utilità. Le nuove sottoscrizioni a diversi servizi tv via satellite negli ultimi tempi sono salite a razzo: il motivo? sono crittate in modo assai migliore. E questo malgrado un boom nelle vendite di chip pirata per decodifica, condotte da gente che sembrerebbe più a suo agio nel distillare acquavite senza licenza che nel violare il sorgente protetto di un software.

Un altro problema evidente della crittazione come soluzione globale è che l'informazione, una volta decodificata da un utente legittimo, può essere indifesa di fronte a un'ulteriore massiccia riproduzione.

In certi casi, la riproduzione dopo la decodifica può non essere un problema. Molti prodotti soft "vanno a male" rapidamente. Può ben essere che il solo vero interesse di questi prodotti sia nell'immediatezza.

Per di più il software sta diventando sempre più modulare e la sua distribuzione avviene sempre più online, e per questi motivi subisce ormai un processo di metamorfosi in diretta interazione con la sua base di utenti. Gli upgrade discontinui si stempererano in un processo continuo di miglioramento e adattamento incrementale, in parte dovuto all'azione umana e in parte ad algoritmi genetici. Le copie pirateggiate di un software potrebbero diventare troppo statiche per avere un qualsiasi valore.

Perfino in casi come quelli delle immagini, dove l'informazione si suppone rimanga fissa, il file decrittato potrebbe ancora essere intessuto di comandi che continuerebbero a proteggerlo con un ampio ventaglio di mezzi.

Nella maggior parte dei sistemi che mi posso immaginare, il file potrebbe essere "vivo", cioè incorporare un software permanente che "sentirebbe" l'ambiente circostante e interagirebbe con esso. Per esempio, potrebbe contenere comandi capaci di rendersi conto della duplicazione e di autodistruggersi insieme all'intero file.

Altri metodi potrebbero dare al file la capacità di "telefonare a casa" al proprietario originale attraverso la Rete. Certi file potrebbero richiedere, per mantenersi integri, il versamento periodico di un po' di cash elettronico da parte dell'utente, e questo cash - attraverso la Rete - sarebbe poi fatto affluire al detentore dei diritti.

E' chiaro che un file capace di comunicare controcorrente lungo la Rete è un po' sinistro, assomiglia al Morris Internet Worm*. I file vivi hanno un po' del virus. E sorgerebbero grossi problemi di privacy se tutti i computer fossero zeppi di simili spioncelli digitali.

Il punto è che la crittazione renderà possibile tecnologie di protezione che si svilupperanno rapidamente, nella sempiterna e ossessiva competizione tra fabbricanti di lucchetti e forzalucchetti.

Ma la crittografia non sarà adibita solo alla fabbricazione di lucchetti. Essa sta anche al cuore delle firme digitali e del denaro digitale menzionato sopra: entrambe queste cose, ritengo, giocheranno un ruolo centrale nella difesa della proprietà intellettuale.

Sono convinto che il fallimento del modello dello shareware nel commercio del software, ormai generalmente riconosciuto, sia più da ricondursi al fastidio di effettuare un pagamento che alla disonestà. Se il processo di pagamento potesse essere automatizzato, come sarà possibile con il cash elettronico e la firma digitale, sono sicuro che i creatori dei prodotti soft saranno in grado di guadagnare molto di più dal pane che pasturano sulle onde del ciberspazio.

In più, si risparmieranno buona parte dei costi generali oggi associati al marketing, alla fabbricazione, alle vendite e alla distribuzione dei prodotti informatici, siano essi programmi per computer, libri, compact disc o film. Questo farà scendere i prezzi e renderà ancora più frequente il pagamento, anche in mancanza di un obbligo.

Ma c'è, e bisogna dirlo, un inconveniente fondamentale in un sistema che richiede, attraverso la tecnologia, il pagamento di ogni accesso a una particolare espressione. Esso sfida l'idea originale di Jefferson di mettere le idee a disposizione di tutti, quale che fosse il loro ceto. Non mi soddisfa molto un modello che confina l'indagine ai ricchi.

Un'economia di verbi. Le forme e le protezioni future della proprietà intellettuale sono avvolte in una fitta nebbia in questo periodo di passaggio all'Era Virtuale. Posso tuttavia esprimere (o ripetere) una serie di affermazioni recise che sono realmente convinto non siano destinate ad apparire ridicole fra cinquant'anni.

1) In assenza dei vecchi contenitori, quasi tutto ciò che noi crediamo di sapere sulla proprietà intellettuale è errato. Dovremo disimparararlo. Dovremo guardare al'informazione come se non avessimo mai visto di quella roba prima d'ora.

2) Le protezioni che escogiteremo si fonderanno più sull'etica e sulla tecnologia che sul diritto.

3) La crittazione sarà la base tecnica per la più gran parte della protezione della proprietà intellettuale. (E per molte ragioni la si dovrebbe rendere più largamente disponibile.)

4) L'economia del futuro si baserà sulle relazioni più che sul possesso. Sarà continua più che sequenziale.

5) E infine, negli anni a venire, la più gran parte dello scambio fra esseri umani sarà virtuale e non fisica - consisterà non di materia ma della materia di cui sono fatti i sogni. Il nostro futuro business sarà condotto in un mondo fatto più di verbi che di sostantivi.

 

* L'autore è uno dei membri del gruppo rock The Grateful Dead. Traduzione, © Sandra Wu, 1995 - per quel che serve. Il testo è stato abbreviato in qualche punto dove toccava situazioni di scarso interesse per il lettore italiano. Per facilitare la comprensione, abbiamo aggiunto un glossario in fondo all'articolo.

* In Italia, attraverso la Siae - Società Italiana Autori ed Editori.

* L'asserzione di Barlow è molto anglocentrica. In Occidente, il diritto romano aveva già da secoli codificato per iscritto le norme sulla proprietà; in Oriente, addirittura da millenni (N.d.T.).

* La posizione di Barlow trova fondamento (e spiegazione) nel diritto angloamericano di Common Law, che resta diverso da quello di matrice romana. Sebbene in entrambi i sistemi vi sia un contributo della giurisprudenza alla definizione delle norme, solo nella Common Law questo contributo è sentito come fondamentale e si ritiene, inoltre, che si possa basare sulla pratica sociale - così come la interpreta il giudice alla luce di principi più o meno espliciti ma in ogni modo abbastanza generalmente condivisi all'interno della cultura. Perfino nei sistemi giuridici anglosassoni, comunque, la produzione di norme da parte del legislatore (Statute Law) ha ormai acquisito un ruolo centrale(N.d.T.)..

* Credetemi, odio questa parola come e più di qualunque purista. L'orrido neologismo purtroppo è impiegato nel mondo dei computer per tradurre la parola inglese malfunction, avaria, e mi debbo giocoforza inchinare all'uso corrente, per spregevole che sia (N.d.T.).

* Cioè all'informazione più dettagliata e ricca (N.d.T.).

* Un parassita di Internet (N.d.T.).


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D'Alema contro Ciampi: è vera recessione?

Forse no, ma poco ci manca: lo mostrano i dati. Il vero problema però sono i conti pubblici, perché al governo prude la mano sulla spesa

di Paolo Brera

 

(25 Novembre 1998) La nuova parola chiave del governo italiano, quando si parla dell'economia, è "sostegno allo sviluppo". L'ha tirata fuori il presidente del Consiglio Massimo d'Alema negli ultimi giorni, anche in risposta ai dati delle prime città campione che mostrano un deciso rallentamento dell'inflazione: "Senza una politica di sostegno allo sviluppo", ha detto D'Alema, "c'è un rischio deflattivo". Ma non la pensa così il ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, che gli ha risposto che i prezzi in discesa non denotano "andamenti recessivi" ma semplicemente, e felicemente, il venir meno di "spinte deflattive di natura esogena". Chi ha ragione? Che cosa sta succedendo davvero nell'economia italiana? Vediamo.

Per ciò che riguarda l'inflazione, il problema è decisamente l'opposto di quello cui eravamo abituati. Negli anni scorsi i prezzi correvano troppo in fretta, oggi arrancano. Se si tiene conto del miglioramento qualitativo dei prodotti, che non viene rispecchiato appieno nelle statistiche sui prezzi, un tasso annuo dell'1,5 per cento significa già diminuzione dei prezzi finali in quasi tutti i settori dell'economia. Prezzi in calo non favoriscono né gli investimenti né la crescita dell'economia. Un punto per D'Alema, che a ragione ha detto: "Siamo arrivati a un punto limite. Per un lungo periodo il nemico principale è stato l'inflazione, oggi è la recessione".

E la produzione, come va? L'industria sta decisamente ansimando. In giugno l'indice destagionalizzato della produzione industriale (dati di fonte Deutsche Bank) è aumentato dello 0,3 per cento, in luglio dell'1,6; in agosto è sceso della stessa percentuale; e poi settembre 1,5, ottobre 0,5 – mentre in novembre l'indice Irs, che stima la produzione sulla base dei consumi elettrici, mostra una diminuzione della produzione media giornaliera di oltre un punto percentuale rispetto al novembre 1997. Un altro punto per D'Alema, dunque. Non è ancora recessione, ma è già stagnazione, e dunque rischio di arretramento.

Nel commercio estero la situazione è migliore di quella che si sarebbe potuta temere un anno fa. Nei primi nove mesi dell'anno il saldo attivo resta molto elevato, 36,5 trilioni di lire, non molto meno, considerato l'oscurarsi delle prospettive economiche mondiali e l'acuita concorrenza dell'Asia, dei 39,5 trilioni registrati nell'analogo periodo dell'anno precedente. Tutto sommato questo punto lo segna Ciampi, il quale ha detto che lo sviluppo dell'economia è "modesto" ma le prospettive sono buone. D'altro canto, il mercato estero non può surrogare una domanda interna che resta debole.

Già, perché il clima di fiducia delle famiglie resta teso (vedi grafico in fondo). Le aspettative dei consumatori hanno toccato un massimo in maggio, poi sono calate fino a settembre e da due mesi migliorano, ma solo di poco. L'euro è piaciuto tanto, ma nessuno se ne aspetta più la felicità terrena. Un punto per D'Alema.

Ciampi si assicura invece un punto quando si parla di deficit pubblico. Nel 1998 dovrebbe scendere al 2,4 per cento del Pil, un livello pienamente compatibile per quel patto di stabilità che ancora il 25 novembre l'arcigno Waigel ha dichiarato essere intoccabile. Ma proprio qui sorgono i problemi. A D'Alema e agli altri ministri fa sempre più prurito l'organo deputato alla spesa. Che gusto c'è a essere al governo se poi bisogna fare gli sparagnini anziché farsi amare dagli elettori a suon di elargizioni?

In questa nostalgia del libero portafoglio il centro sinistra italiano non è solo: in realtà, è in compagnia di diversi altri governi europei. Le pressioni anche in sede Ue perché si allenti il patto di stabilità sono in netta crescita. Che pensarne? Un po' di riflazione keynesiana (argomentano diversi economisti) potrebbe anche andar bene, ma a patto che fosse ottenuta riducendo le tasse e non aumentando la spesa pubblica. Sull'intenzione effettiva di far questo, tuttavia, ancora per i prossimi vent'anni qualunque governo italiano dovrà essere tenuto per colpevole – almeno finché non avrà dimostrato la sua innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio.


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Le scatole cinesi e…
lussemburghesi della Olivetti

Colaninno è un ottimo manager, ma ora vuole controllare Olivetti con lo 0.58% del capitale. E' il più vecchio, e vieto, capitalismo italiano

di Paolo Brera

Che Roberto Colaninno, amministratore delegato della Olivetti, sia stato una vera benedizione per la società e per i suoi azionisti è un fatto. Gli azionisti sarebbero matti come cavalli a non riconfermarlo quando scadrà il suo incarico e si presenterà in Assemblea per farselo rinnovare. Questo giudizio crediamo possa essere largamente condiviso. Ma che Colaninno oggi intenda mettersi al riparo da qualunque evenienza assumendo il controllo della società è qualcosa che in un mercato finanziario progredito si può accettare solo se il tentativo rispetta le regole. Invece l'acquisizione dell'8,02 per cento della Olivetti da parte della società lussemburghese Bell è qualcosa che riporta indietro alle pratiche più barbariche del vecchio capitalismo italiano.

La Olivetti è, al momento attuale, una vera public company. La sua proprietà infatti è diffusa fra un enorme numero di piccoli azionisti, i più grandi dei quali ne posseggono percentuali a una sola cifra prima della virgola. Per questo quando nei giorni scorsi è stato annunciato che la Bell (una società del Lussemburgo che non bisogna confondere con il vecchio colosso americano delle telecomunicazioni) aveva acquistato l'8,02 per cento della società di Ivrea, ciò che è stato in effetti annunciato era che ne aveva preso il controllo. Nessuno, infatti, dispone in assemblea di un numero di voti maggiore.

Ma la Bell, come tutti gli enti collettivi, è solo una finzione dietro la quale dobbiamo vedere i singoli individui che le danno vita. Se si posa sulla società lussemburghese uno sguardo non del tutto superficiale, è evidente come nella Bell a comandare sia Colaninno, sia pure con l'aiuto di numerosi amici e alleati.

Soci della Bell, dice una nota diffusa dalla sede luganese della società, "sono primari investitori italiani ed esteri, tra cui la Banca Antoniana Popolare Veneta, Interbanca, Chase Manhattan Bank, Gpp International (finanziaria che fa capo al gruppo bresciano Hopa) e, quale azionista di maggioranza relativa, con una partecipazione pari al 46,02 per cento del capitale, Fingruppo Spa". Il presidente di quest' ultima società è Colaninno, al quale fa capo una partecipazione in Fingruppo pari al 15,718 per cento. "Gli azionisti di Bell", si legge ancora nel comunicato, "intendono rappresentare una partnership stabile ed hanno concluso tra loro un accordo di durata triennale". Durante questo periodo "tutte le decisioni significative relative a Bell, ivi incluse quelle concernenti la partecipazione Olivetti, dovranno essere assunte con maggioranze almeno pari al 75 per cento del capitale".

Insomma: i soci della Bell si preparano – oh, in perfetta letizia! – a comandare nella Olivetti. E' giusto? E' sbagliato? Diciamo che sarebbe giusto se questo avvenisse nel modo canonico: acquisendo la maggioranza o una quota rilevante del capitale Olivetti. Invece la Bell è una classica scatola cinese come un tempo ne esistevano moltissime in Italia, e la Fingruppo lo stesso. Roberto Colaninno, se uno va a fare i conti, possiede in tutto lo 0,58 per cento della società di Ivrea. Però comanda.

Tronchetti Provera, un altro manager di visione e di successo, guida anche lui la Pirelli con una percentuale piccola. Però è arrivato al posto di guida che già l'aveva, questa percentuale, e la catena di controllo della Pirelli proprio in questi ultimi mesi si sta accorciando per sua iniziativa. Le scatole cinesi rappresentano un capitalismo stantio e ben poco rispettoso dei piccoli investitori. Dispiace che un grande come Colaninno abbia sentito il bisogno di crearne una (anzi, due) per rimanere più sicuramente in sella. Gli sarebbe dovuto bastare il fatto che ben pochi, in Italia, sanno cavalcare bene quanto lui.


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