BRERA VIEWS - COMMENTI E OPINIONI
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Barilla aggredisce il "modello renano"

(16 aprile 2002) L'offerta pubblica di acquisto della Barilla per la Kamps è veramente qualcosa di nuovo, e potrebbe infliggere un severo colpo al "modello renano" – l'intreccio in chiave nazionalistica di potere industriale e finanziario che costituisce il fulcro dell'economia tedesca. Dieci anni fa, la scalata di un gruppo italiano a un concorrente germanico (Pirelli e Continental) si infranse appunto sulla forza di questo modello, che si chiuse a riccio di fronte all'"invasore".

Paolo Brera

Due anni fa, è vero, la britannica Vodafone riuscì invece ad aprire una breccia nella fortezza renana con l'audace colpo su Mannesmann. Ma oggi siamo di fronte a un inedito. Barilla e Kamps hanno dimensioni simili ma ben differente forza finanziaria. Non è semplicemente un caso del numero uno bianco rosso e verde degli spaghetti che vuole rilevare il gigante teutonico delle merendine (e già questo sarebbe pure qualcosa, vista la nazionalità dell'aspirante compratore). È una storia che espone la debolezza del Mittelstand tedesco, quella fascia di imprese familiari, collegate organicamente alle banche, che per anni è stata considerata, al contrario, la forza del sistema economico tedesco.

Diciamo subito che l'offerta ai tedeschi non è piaciuta. Al grido "Difendiamo i nostri carboidrati!" i cavalieri renani si sono mobilitati a protezione dei sacri forni. L'esito della battaglia resta incerto, perché la quotazione di Kamps già il primo giorno dell'offerta ha superato i 12 euro offerti da Barilla. L'intrattenimento, in compenso, è assicurato.

L'aspirante compratore è un'azienda parmigiana con ramificazioni in tutto il mondo. Secondo le ricerche della Sda-Bocconi, quello di Barilla è il marchio più noto in Italia. L'impresa ha chiuso il 2001 con un fatturato di circa 2,2 miliardi di euro e un margine operativo lordo di 325 milioni. L'indebitamento netto è ragionevolissimo, 130 milioni. L'utile ante-imposte è 123 milioni di euro. Punto di forza la pasta, punto un po' dolente i prodotti da forno, dove invece è robustosa e forte l'azienda tedesca.

Il bersaglio, la Kamps AG, nel 2001 si è confermata invece azienda leader in Europa proprio in quel settore. Il fatturato netto è cresciuto robustamente, del 14 per cento, anche se resta di un bel po' inferiore a quello della Barilla: 1,7 miliardi di euro. Margine lordo: 107 milioni di euro, ma risultato netto in perdita per 54 milioni.

L'offerta è fatta a nome della consociata tedesca di Barilla, Finba Bakery Europe AG, a un prezzo che essa ha definito "equo e ragionevole". Guido Barilla ha rincarato la dose: "Siamo fiduciosi di riuscire a ottenere l’appoggio del consiglio d'amministrazione di Kamps. Kamps e il Gruppo Barilla sono complementari in termini di marchi, prodotti e mercati". Anche nella finanza la diplomazia conta, e Barilla ha evitato di menzionare la sgradevole circostanza che per tre mesi aveva fatto la corte al signor Heiner Kamps, senza riuscire a persuaderlo, prima di lasciare ogni indugio e formulare l'offerta.

La risposta, per ora ancora ancora ufficiosa, resta un sonoro rifiuto. "Gli italiani non offrono abbastanza", ha detto qualcuno di importante, e la Borsa di Francoforte ci ha subito creduto: la quotazione delle azioni Kamps è schizzata su, su, su, fino a raggiungere e superare il prezzo offerto da Barilla. È cominciata anche la ricerca di alternative puramente germaniche. Ma nel monolitismo renano, questa volta, c'è una falla: in questa transazione Deutsche Bank è advisor finanziario di Barilla. E quindi si schiera non con i renani, ma con gli aspiranti invasori. "Corrotti" da un piatto di spaghetti? No: più semplicemente, consci della massa di debiti che la Kamps, nel più puro stile del Mittelstand germanico, ha acceso per finanziare la sua rapida espansione, debiti che la rendono ora vulnerabile a un'intrusione finanziaria. E il danaroso intruso italiano è in grado di pagare la "primogenitura" con qualcosa di più che un piatto di lenticchie.


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Condono, cioè carota. O bastone? Non importa, tanto non funziona!

(23 febbraio 2002) Il Ministro dell’economia e finanze Tremonti, con largo anticipo rispetto alla consuetudine fiscale italiana, ha prorogato con decreto legge le scadenze iniziali dei suoi due condoni legati al suo nome, quello sull'emersione del lavoro sommerso e quello sullo "scudo" fiscale. Difatti il primo, che scadeva al 30 giugno, passa al 30 novembre, e il secondo che scadeva al 28 febbraio va al 15 maggio per presentare la dichiarazione e al 30 giugno per concludere l'operazione.

Nicola Sardi

La proroga era inevitabile in quanto la raccolta realizzata era intorno a solo il 20 per cento dei dati stimati… evidentemente troppo ottimistici, nonostante i continui martellanti spot pubblicitari per incentivare la sistemazione contributiva (rispolverando addirittura il vecchio Mike Buongiorno) e nonostante le ripetute roboanti "previsioni" del ministro sul rientro dei capitali esportati, peraltro sempre inesorabilmente accompagnate dalle sue minacce ai contribuenti interessati che, una volta passata l'occasione offerta con i due condoni, dopo le scadenze si sarebbe aperta un'implacabile caccia agli evasori.

Naturalmente il ministro, visto il fiasco iniziale, si è visto anche costretto ad allargare la possibilità di utilizzo delle due sanatorie, sperando così di aumentarne l'appeal. Ma Tremonti non rinuncia alla sua strategia del bastone e della carota, in quanto, da un lato sta sperimentando ai valichi di frontiera con la Svizzera, l'uso del fiscovelox, facendo riprendere dalla Guardia di finanza le targhe degli autoveicoli transitanti il confine per individuare i possibili movimenti occulti di denaro, dall'altro ha affermato che "il Governo punta a dare un massiccio impulso nella lotta all'evasione fiscale e al lavoro nero, grazie anche a un rinnovato ruolo della Guardia di finanza contenuto nella legge delega in materia fiscale ora all'esame della commissione Finanze della Camera". L'obiettivo specifico dichiarato del ministro è quello di "recuperare almeno in parte quel quarto di Pil che ogni anno sfugge ad ogni forma di tassazione".

Forse il ministro non ha ancora capito i veri due motivi per il quale in Italia ha sempre fallito la strategia del bastone e della carota con i contribuenti. Il primo è la quasi certezza che ha l'evasore non inquadrato, cioè quello totale, di non essere scoperto, salvo che gli capiti un colpo di sfortuna, il secondo è la quasi certezza… che presto (o tardi) arriverà un condono "tombale"!


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Bankitalia, Consob e Banca di Roma contro gli azionisti BiPop

(22 febbraio 2002) Da qualche mese a questa parte tre grandi entità si stanno accanendo contro gli azionisti della BiPop, la banca lombardo-emiliana protagonista in tempi recenti di una clamorosa disgrazia borsistica. Questi tre enti sono la Banca d'Italia, la Consob e la Banca di Roma. Ciò che stanno mettendo in atto non ha nulla a che fare né con un mercato finanziario degno di questo nome né con la protezione dei cittadini da possibili abusi in campo creditizio.

Paolo Brera

La BiPop, un tempo beniamina di Piazza degli Affari per il suo successo come banca online, si è trovata nelle peste a partire dall'anno scorso per alcune scelte rovinose, e forse addirittura fraudolente, compiute dal suo precedente management. Fra gli azionisti della banca ci sono molti esponenti del mondo imprenditoriale delle province della Lombardia orientale e dell'Emilia, oltre alle fondazioni un tempo proprietarie delle aziende poi confluite a formare BiPop. La crisi della banca è seria.

A questo punto entrano in scena la Banca di Roma e la Banca d'Italia, la prima ponendosi come "cavaliere bianco" che potrà tirare d'impaccio BiPop e fondersi con essa, la seconda coonestando questa candidatura (e respingendone altre) dall'alto del suo ruolo di organo di sorveglianza del sistema bancario. Molti azionisti minori non sono d'accordo, in particolare un gruppo autorevolmente presieduto dall'ex segretario dell'ultima Dc Mino Martinazzoli. Diplomaticamente, loro si limitano a dire che la Banca di Roma non è il solo partner possibile – ma vogliono dire che è un partner sgradito.

Non si può dargli torto. La Banca di Roma è un carrozzone celebre per la sua scarsa efficienza: il suo Roe, Return On Equity, cioè il rendimento del capitale proprio, è particolarmente basso, peggiore – se facciamo astrazione dalle perdite straordinarie – anche di quello di BiPop dopo la crisi. La sua nascita da tre banche dell'area romana è collegata a una solenne bastonata inferta, con la benedizione di Giulio Andreotti, agli interessi pubblici, rappresentati allora da un Iri che dovette cedere parte delle sue quote a un prezzo ridicolo e con un sistema tale da rinunciare anche al controllo. Quel tanto di utile che fa Bancaroma viene sopra tutto dalla sua posizione di monopolio in diverse aree dell'Italia centrale.

Dopo aver dovuto mollare buona parte della sua rete nel Nord Italia per la sua scarsa concorrenzialità, la Banca di Roma vorrebbe adesso ricostituirla ingurgitando quella di BiPop. Dal punto di vista del conto economico della banca, è un obiettivo inappuntabile. Tant'è vero che la Borsa, dal momento dell'annuncio della fusione a oggi, ha premiato i romani con un aumento del 20 per cento del prezzo dell'azione, mentre ha punito i lombardo-emiliani con un calo del 30. Il che indica chiaramente quale delle due aziende avesse qualcosa da guadagnare dalla fusione.

I piccoli azionisti BiPop ringraziano commossi per questo tracollo nel valore delle loro azioni. Restava uno scoglio, la necessità per l'azienda romana di procedere a un'offerta pubblica d'acquisto (Opa) se avesse superato il 30 per cento di BiPop, come quasi sicuramente avverrà. Ma qui è entrata in scena la Consob, disponendo l'esenzione da questo obbligo perché, udite udite, esiste un piano industriale. Cioè, siccome le due banche si mettono insieme al fine di ristrutturare, va bene così e gli azionisti minori non hanno diritto a beneficiare di alcuna Opa.

Quello a cui stiamo assistendo, diciamolo chiaramente, è in pratica un esproprio degli azionisti di BiPop, con la scusa della necessità di risanare, a favore di un gruppo bancario che ha sempre operato più in nome della politica che dell'economia. Il tutto con la benedizione di due autorità di sorveglianza. Tarderà a nascere, se nasce, un mercato finanziario evoluto nel nostro Paese, se questi sono i comportamenti che possiamo aspettarci.


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Dov'è finito il Giappone di una volta?

(18 febbraio 2002) Segni dei tempi, impariamo a riconoscerli: quando un presidente americano in visita a Tokyo sente il bisogno di esprimersi come segue, che cosa vuol dire? "È importante che la seconda economia mondiale cresca, sarà di aiuto al resto del mondo. Ho la massima fiducia nella capacità di guida di Koizumi e nel suo grande programma di riforme economiche, che appoggio in pieno", ha dichiarato George Bush. Traduzione: il ragazzo tutto sommato è sveglio, ma non si applica. Nella considerazione del mondo il Giappone è passato in dieci anni da bambino prodigio a malato cronico e palla al piede per la crescita globale. Nell'arcipelago, è dal 1990 che non c'è crescita economica degna di questo nome.

Paolo Brera

Certo, il Giappone rimane una economia avanzatissima, e non ha torto Massimo Ponzellini, il numero due della Banca Europea per gli Investimenti, a dire che "Per quanto riguarda la finanza, il Giappone è una stella opaca, ma sul versante industriale, della tecnologia delle imprese, il Giappone è molto forte". Non ha torto, però il semplice fatto che ci sia bisogno di dirlo è un segno dei tempi.

In verità, il Giappone potrebbe ben essere il primo focolaio di una prossima crisi economica mondiale. La sua debolezza si riconferma un anno dopo l'altro: non solo la produzione ristagna e la disoccupazione cresce (5,6 per cento, oggi, ed è il livello più alto dalla fine della guerra in poi), ma i prezzi al dettaglio continuano a diminuire, creando una situazione di prolungata deflazione che nel resto del mondo non si vede ormai dagli anni Trenta. La deflazione è un problema serio. Scoraggia l'iniziativa imprenditoriale in almeno due modi, perché oscura le prospettive (un recente sondaggio di ACNielsen ha trovato i consumatori giapponesi i più pessimisti dell'Asia, e lo sono da un decennio) e perché rende più gravoso il peso dei debiti.

Il sistema bancario, un tempo fra i maggiori agenti della crescita, è paralizzato da una massa enorme di sofferenze e crediti incagliati. Il governo è intervenuto a più riprese ma non ha mai avuto il coraggio di accettare tutti i "fallimenti eccellenti" che sarebbero necessari per dare una bella ripulita al settore del credito. Il prossimo 1° aprile, però, succederanno due cose: scadrà la garanzia piena sui depositi, e le banche saranno obbligate a contabilizzare le perdite potenziali sui titoli quotati che hanno in portafoglio – il che potrebbe precipitare una crisi disastrosa.

La via d'uscita che in altri Paesi si presenta come la più ovvia, somministrare all'economia una bella pera di spesa pubblica, è stata tentata per anni: unico risultato, il debito pubblico è schizzato al 130 per cento del pil, un livello più alto di quello italiano o belga.

Junichiro Koizumi, il primo ministro giovane e rockettaro che parla franco e deciso, continua a dire di voler fare le due o trecento profonde riforme delle quali il Paese ha assoluta necessità. Per ciascuna riforma, però, c'è almeno una lobby decisa e potente che intende bloccarla. Koizumi ha dovuto ripiegare più volte, ed è arrivato al punto (cherchez la femme) di mandar via la battagliera e popolare ministro degli Esteri, Makiko Tanaka, che ad una riforma stava mettendo mano davvero. Da allora il rating del primo ministro nei sondaggi non fa che scendere. E altrettanto fa il Nikkei, l'indice della Borsa di Tokyo, che vegeta a un terzo scarso dai massimi segnati nel lontano 1987. Una bella caduta per il Paese che si pensava dovesse essere il leader mondiale nel ventunesimo secolo.


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Lotto minimo, la Borsa era più liquida prima

(14 febbraio 2002) Da qualcosa come due mesi le contrattazioni di Borsa avvengono senza un numero minimo obbligatorio di titoli da scambiare in ciascun contratto. Questa innovazione, ci aveva spiegato Massimo Capuano, il numero uno di Borsa SpA, doveva mettere Milano al passo con i mercati più evoluti, dare liquidità al sistema, rilanciare gli scambi. È successo veramente? Sì e no. Per i titoli a largo flottante, parrebbe di sì. Per i titoli poco scambiati, i cosiddetti "sottili", decisamente no. Anzi, la situazione è perfino peggiorata.

Paolo Brera

L'argomento potrebbe sembrare tecnico, però guardate che influisce direttamente sugli interessi di milioni di piccoli risparmiatori. La liquidità di un bene è la sua attitudine a essere comprato e venduto in fretta, senza fatica e senza perdite di valore. Va da sé che più liquido è un bene più lieto e leggero sarà il cuore di chi lo detiene: in caso di bisogno, infatti, potrà convertirlo facilmente in qualcos'altro. Quanto più liquido è un mercato finanziario, tanto più facile sarà il processo sociale di investimento, dal quale in ultima analisi dipende il benessere economico della gente.

Fino a due mesi fa, chi possedeva azioni poteva comprarle o venderle solo a multipli di una certa quantità, che era appunto detta "lotto minimo": nel caso della Popolare di Novara, per esempio, erano 100 azioni, per la Fiat erano 50, per, un nome a caso, le SoPaF rnc erano 2500. Se uno si ritrovava in mano quantità diverse (succedeva spesso, per vari motivi) poteva vendere queste "spezzature" solo con una procedura particolare. E gli poteva capitare di non riuscirci per settimane, o di perderci parecchio. In altri termini, le spezzature non erano molto liquide.

Tutto finito. Oggi se vuoi puoi comprare o vendere anche un'azione sola alla volta. Però che succede? Una persona che decide di vendere 50 azioni Fiat può trovare 50 buontemponi che ne comprano una a testa. Ci sono quindi 50 contratti su ciascuno dei quali si applicano le imposte di Borsa in misura fissa e la commissione minima addebitata dalle banche (tipicamente, 6 euro). Tralasciando le imposte, per 50 azioni vendute il malcapitato riceverà (posto che il prezzo dell'azione Fiat sia 16 euro) 800 euro meno 300 di commissioni. A fare i calcoli, è il 37,5 per cento. Non c'è male come spesa. Lo stesso può succedere a chi vende.

Questo di fatto non pesa poi così tanto nel caso dei titoli a larga diffusione. Per i titoli sottili, la musica è diversa. In una certa giornata le Necchi rnc (un titolo dal flottante particolarmente limitato) hanno segnato un prezzo con solo cinque azioni scambiate, in cinque contratti, per un controvalore, tenetevi forte!, di 6 diconsi 6 euro (e 30 euro di tasse e commissioni bancarie). Manipolazioni analoghe si sono registrate per altri titoli, sopra tutto nelle aste di fine sessione che determinano il prezzo di riferimento.

In teoria, uno può sempre aspettare che qualcuno offra di comprare un numero adeguato di azioni per vendergli le sue (si chiama "vendere sul denaro", e il suo opposto è "comprare sulla lettera"). Però questo lo può fare solo chi ha accesso al "book" delle contrattazioni di Borsa, cioè i grandi investitori e solo una esigua minoranza dei piccoli. La realtà dell'abolizione del lotto minimo è che per i titoli minori la liquidità complessiva del mercato è diminuita, non aumentata. A guadagnarci sono più o meno solo coloro che con l'aumento del numero dei contratti introitano di più in commissioni, cioè le banche. Che vedi caso sono poi anche le azioniste di Borsa SpA, quella che ha abolito il lotto minimo.


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Con l'euro deve cambiare anche la Banca d'Italia

(8 febbraio 2002) C'era una volta una banca centrale che usava bacchettare i politici del suo Paese per la loro gestione della finanza pubblica. Gli abitanti di quel Paese udivano volentieri quelle parole perché indicavano in modo chiaro e autorevole la via per risolvere gli squilibri. L'ufficio studi della banca era famoso nel mondo, la banca stessa era uno dei pochi enti di quel Paese che fossero rispettati a livello mondiale. Emetteva la moneta e ne regolava il flusso con la manovra dei tassi d'interesse e la supervisione del sistema creditizio.

Paolo Brera

C'era una volta, appunto, perché quello stato di cose appartiene al passato. Quella banca, la Banca d'Italia, non è più una banca centrale: non è lei ad emettere gli euro e non è lei a decidere il livello del tasso Lombard. Sentir flagellare i politici sulle questioni delle riforme e della spesa pubblica è sempre un piacere, ma i politici di oggi lo meritano meno di una volta (sopra tutto sul bilancio pubblico, che è abbastanza in ordine) e poi non si vede perché debba farlo un ente che formalmente è una società per azioni.

Il governatore Antonio Fazio ha affrontato di striscio l'argomento qualche giorno fa al Forex: "Chiunque esercita il mestiere di banchiere centrale sa che ci possono essere discussioni ma l'importante è che alla fine si riconosca il valore di ciò che viene fatto. Il banchiere centrale è come un chirurgo, che può decidere di tagliare in modo preciso o prescrivere una cura molto forte ma sempre secondo scienza e coscienza". Già, ma il problema è che la Banca d'Italia non è più una banca centrale.

Le funzioni rimaste a Bankitalia sono gli studi economici e la sorveglianza sul sistema bancario. Per svolgerle, l'istituto di via Nazionale mette al lavoro lo stesso numero di persone di quando doveva gestire l'offerta di moneta: circa ottomila. Non saranno troppe, adesso?

Separiamo nettamente il discorso aziendale da quello del personale. A cominciare da Antonio Fazio, che è un benemerito: ha gestito con saggezza la politica monetaria e ha pilotato la lira nel sistema dell'euro. I dipendenti Bankitalia sono persone molto qualificate. Ma anche un esercito vittorioso a guerra finita viene sciolto o ridimensionato, e il grande stratega torna a casa, onusto di medaglie. Fazio sarebbe un ottimo ministro o un possibile senatore a vita. Ai dipendenti in sovrappiù si può trovare altro da fare in altre parti del sistema produttivo, oppure possono trovarselo loro, visto che di regola sono ben professionalizzati.

Il futuro della Banca d'Italia non può consistere nel far finta di essere ciò che non è più. Le varie funzioni – sicuramente ancora utili – possono ormai essere scorporate: una authority per la sorveglianza del sistema creditizio, un servizio studi economici al servizio del governo e della Banca Centrale Europea, e una serie di funzioni residuali che possono o meno essere gestite unitariamente. Nel suo intervento al Forex Antonio Fazio, a proposito della vigilanza, ha sostenuto che "La tutela del risparmio affidata al capitale di Borsa può essere diversa da quella che si richiede per la tutela della stabilità del sistema bancario". Il riferimento era alle recenti proposte del presidente della Commissione attività produttive della Camera, Bruno Tabacci, fautore di un nuovo raggruppamento delle competenze delle varie authority di sorveglianza sul mercato e quindi della fusione tra loro di quelle attuali per diminuirne il numero. Nel caso specifico ha certamente ragione Fazio: nessuno può vigilare sulle banche meglio di Bankitalia. Ma una riflessione sulla reale funzione dell'Istituto nelle nuovi condizioni create dalla valuta europea è più che matura.


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Gli orfani del Nasdaq

(7 febbraio 2002) La vita è fatta a scale, e decisamente una di queste i day trader italiani la stanno scendendo. Il popolo di coloro che passano ore davanti a uno schermo di computer, inserendo ordini di acquisto e di vendita di titoli azionari o di avveniristici derivati finanziari, sta risalendo in disordine le fibre ottiche lungo le quali era disceso, due o tre anni fa, con orgogliosa sicurezza. Il loro stendardo, le rapide plusvalenze mordi e fuggi, è rotolato nel fango: nessuno riesce più a mettere a segno un guadagno di mezzo milione di lire in una giornata con un investimento di due o tre milioni nella Borsa americana e in particolare nel Nasdaq, che di Wall Street è il segmento ad alta tecnologia. I loro dèi – il dollaro, l'economia americana – non sono più quello che erano una volta.

Paolo Brera

Gli orfani del Nasdaq non sono pochi. Secondo una stima, in Italia hanno accesso alle contrattazioni di Borsa via Internet qualcosa come 600.000 persone; di queste, almeno un decimo opera su New York. Ci sono capoluoghi di provincia con molti meno abitanti. Come in una città di provincia, i day trader nasdaqquiani si incontrano ogni giorno: virtualmente, si capisce, perché affiggono sui forum e le chatline dei siti Web specializzati rutilanti messaggi sulle loro prodezze, e si scambiano opinioni e informazioni. Spesso in linguaggio criptico, come questo: "Rw, ma sei pazzo? Vendere AMZN a 11.4$? Dico, io le ho comprate a 7$ e ora sono a 12.21$!!! Mi sembra una mossa affrettata e insensata! AMZN può essere appena all'inizio dell'ascesa, quindi perché vendere? I target price continuano a variare in meglio!". AMZN è la sigla Nasdaq di Amazon.com.

L'altra grande fonte di messaggi ermetici è l'analisi tecnica, che si ripropone di predire i trend di prezzo delle azioni sulla base del comportamento passato del mercato, senza nessun rapporto con le caratteristiche dell'impresa che le emette e le sue prospettive economiche. Col tempo l'analisi tecnica si è sviluppata in una specie di Talmud di Mammona, con migliaia di appassionati cultori pronti a giurarci sopra. Inutile dire che quando la Borsa cade l'analisi tecnica non impedisce solenni bagni, mentre quando sale uno guadagna anche senza.

I tempi d'oro degli orfani del Nasdaq sono ormai lontani. Fra ottobre 1999 e marzo-aprile 2000 l'indice è passato da 3000 a oltre 5000: un periodo in cui lo sciocchezzaio globale dei media si arricchisce di innumerevoli articoli che proclamano la fine del ciclo e l'avvento della New Economy, Yahoo il suo profeta. Poi il crollo: prima fra 3 e 4000, poi sempre più giù, fino agli attuali 1900, dopo una puntatina al di sotto dei 1500. Gli orfani non si rassegnano. "Ma quando riparte il Nasdaq?!", scrive sgomento su un forum un certo Caspa2001. Non è ancora ripartito, anzi.

Dietro il folklore dei mercati virtuali ci sono comunque le grandi tendenze dell'economia. Grazie al vigoroso stimolo fiscale e monetario della seconda metà del 2000, gli Stati Uniti si riprenderanno nel primo e secondo trimestre per l'effetto della ricostituzione delle scorte. Ma sarà una cosa di breve durata, perché gli squilibri dell'economia americana richiederanno almeno un paio d'anni per essere riassorbiti. Gli orfani del Nasdaq salteranno addosso al prevedibile miglioramento del mercato e ricominceranno a intonare peana sui loro forum. Poi ricominceranno le perdite e loro si ritireranno a leccarsi le ferite. Così è la vita. Per virtuale che sia.


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Germania l'è malata, e Solbes l'è el dottór…

(6 febbraio 2002) Se nella riunione di oggi della Commissione europea, come appare molto probabile, il commissario agli Affari economici e monetari Pedro Solbes proporrà e otterrà di indirizzare un avvertimento preventivo alla Germania per il livello raggiunto dal suo deficit pubblico, la storia dell'euro prenderà una piega inedita. Inedita, e ironica. Nove anni fa, al momento in cui fu varata a Maastricht la costruzione che doveva portare alla moneta unica, si sentì il bisogno di redigere un Piano di stabilità e sviluppo che avrebbe impedito ai singoli Paesi – leggi: all'Italia – di deragliare il nascituro euro con un'eccessiva spensieratezza della loro finanza pubblica. Oggi è proprio lo Stato che allora era considerato il paradigma della virtù budgetaria, la Germania, ad essere richiamato in nome delle regole che aveva tanto insistito per imporre a tutti.

Paolo Brera

In base alle tendenze correnti il disavanzo pubblico tedesco toccherà, a quanto sembra, il 2,7 per cento del prodotto interno lordo (pil), un livello che è a un passo dal 3 per cento fissato a Maastricht. Il problema è la bassa crescita economica e la politica di alleggerimento fiscale del governo socialdemocratico: messe insieme, queste hanno scavato un solco fra le entrate e le spese. Se la Germania non prenderà immediati provvedimenti, potrebbe ritrovarsi a pagare le feroci multe previste dal Piano, cioè fino allo 0,5 per cento del pil.

Il meccanismo era concepito per impedire le pazzerellate dell'Italia e degli altri Paesi giudicati poco seri. I sondaggi sul gradimento dell'euro fra i tedeschi producevano non di rado risposte tipo "Come si può prendere sul serio una moneta in cui entreranno la lira e la dracma?".

Sarebbe stato meglio, in effetti, prenderla un po' più sul serio. I Paesi che si presentarono a Maastricht con i più alti deficit di bilancio, infatti, hanno da allora in poi lavorato sodo per ricondurre in pari i conti pubblici. Nel 2001 l'Italia ha avuto un disavanzo (stime Ocse) pari all'1,4 per cento del pil, cioè inferiore a quello della Francia. La Spagna è in equilibrio: lo Stato spende tutto quello che entra in cassa, ma neanche 166 pesetas (un euro) di più. Idem il Belgio. L'Irlanda è in forte avanzo. Il più grande spendaccione è proprio la Germania, con il 2,5 per cento.

La debolezza tedesca si sta riflettendo sull'intera economia di Eurolandia e sul valore esterno dell'euro. Gli undici Paesi che hanno adottato l'euro sono cresciuti dell'1,5 per cento nel 2001 (secondo le proiezioni dell'Economist) e cresceranno dell'1 per cento quest'anno: in entrambi i casi, più degli Stati Uniti e ovviamente più del Giappone, che da anni la crescita economica non sa neanche più che bestia sia. L'euro vale 86 centesimi di dollaro e se non fa rimpiangere il marco tedesco, valuta forte del bel tempo che fu, è solo perché il marco sarebbe sicuramente ancora più debole, vista l'indisciplina di bilancio della Germania.

Il mondo alla rovescia? Eh sì. Il mondo continua a comprare dollari per partecipare ai dividendi di un'economia, quella americana, che cresce meno di quella dell'Europa, paga interessi minori, ha un'inflazione maggiore (anche se si tratta di un'inflazione da ridere), e accusa squilibri più acuti sia nella bilancia dei pagamenti che nei conti pubblici. Tutto rigorosamente alla rovescia. Ah, se ci fosse ancora la nostra lira! Con i parametri economici dell'Italia, sarebbe una delle monete più forti del mondo.

 


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Ridimensionare la Banca d'Italia

(5 febbraio 2002) C'era una volta una banca centrale che usava bacchettare i politici del suo Paese per la loro gestione della finanza pubblica. Gli abitanti di quel Paese udivano volentieri quelle parole perché indicavano in modo chiaro e autorevole la via per risolvere gli squilibri. L'ufficio studi della banca era famoso nel mondo, la banca stessa era uno dei pochi enti di quel Paese che fossero rispettati a livello mondiale. Emetteva la moneta e ne regolava il flusso con la manovra dei tassi d'interesse e la supervisione del sistema creditizio.

Paolo Brera

C'era una volta, appunto, perché quello stato di cose appartiene al passato. Quella banca, la Banca d'Italia, non è più una banca centrale: non è lei ad emettere gli euro e non è lei a decidere il livello del tasso Lombard. Sentir flagellare i politici sulle questioni delle riforme e della spesa pubblica è sempre un piacere, ma i politici di oggi lo meritano meno di una volta (sopra tutto sul bilancio pubblico, che è abbastanza in ordine) e poi non si vede perché debba farlo un ente che formalmente è una società per azioni.

Il governatore Antonio Fazio ha affrontato di striscio l'argomento qualche giorno fa al Forex: "Chiunque esercita il mestiere di banchiere centrale sa che ci possono essere discussioni ma l'importante è che alla fine si riconosca il valore di ciò che viene fatto. Il banchiere centrale è come un chirurgo, che può decidere di tagliare in modo preciso o prescrivere una cura molto forte ma sempre secondo scienza e coscienza". Già, ma il problema è che la Banca d'Italia non è più una banca centrale.

Le funzioni rimaste a Bankitalia sono gli studi economici e la sorveglianza sul sistema bancario. Per svolgerle, l'istituto di via Nazionale mette al lavoro lo stesso numero di persone di quando doveva gestire l'offerta di moneta: circa ottomila. Non saranno troppe, adesso?

Separiamo nettamente il discorso aziendale da quello del personale. A cominciare da Antonio Fazio, che è un benemerito: ha gestito con saggezza la politica monetaria e ha pilotato la lira nel sistema dell'euro. I dipendenti Bankitalia sono persone molto qualificate. Ma anche un esercito vittorioso a guerra finita viene sciolto o ridimensionato, e il grande stratega torna a casa, onusto di medaglie. Fazio sarebbe un ottimo ministro o un possibile senatore a vita. Ai dipendenti in sovrappiù si può trovare altro da fare in altre parti del sistema produttivo, oppure possono trovarselo loro, visto che di regola sono ben professionalizzati.

Il futuro della Banca d'Italia non può consistere nel far finta di essere ciò che non è più. Le varie funzioni – sicuramente ancora utili – possono ormai essere scorporate: una authority per la sorveglianza del sistema creditizio, un servizio studi economici al servizio del governo e della Banca Centrale Europea, e una serie di funzioni residuali che possono o meno essere gestite unitariamente. Nel suo intervento al Forex Antonio Fazio, a proposito della vigilanza, ha sostenuto che "La tutela del risparmio affidata al capitale di Borsa può essere diversa da quella che si richiede per la tutela della stabilità del sistema bancario". Il riferimento era alle recenti proposte del presidente della Commissione attività produttive della Camera, Bruno Tabacci, fautore di un nuovo raggruppamento delle competenze delle varie authority di sorveglianza sul mercato e quindi della fusione tra loro di quelle attuali per diminuirne il numero. Nel caso specifico ha certamente ragione Fazio: nessuno può vigilare sulle banche meglio di Bankitalia. Ma una riflessione sulla reale funzione dell'Istituto nelle nuovi condizioni create dalla valuta europea è più che matura.


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Tre cavalieri bianchi per Ligresti

(3 febbraio 2002) Che inatteso coniglio è uscito mai dal cappello a coppola di Salvatore Ligresti! Nella battaglia che Mediobanca e Sai stanno sostenendo contro Fiat per il controllo di Fondiaria, sono spuntati come cavalieri bianchi tre nomi eccellenti: la banca d'affari J P Morgan, Interbanca e Francesco Micheli hanno assunto l'impegno irrevocabile ad acquistare il 22 per cento del capitale della Fondiaria che dall'inizio dell'anno balla tra Fiat e Sai. Con questa comunicazione, la Sai ha potuto chiedere alla Montedison la restituzione della caparra di 258 milioni di euro che aveva depositato a suo tempo.

Paolo Brera

Una cosa va chiarita subito, siamo di fronte a una vicenda che non è finanziaria o industriale. Dal punto di vista industrial-finanziario, l'unica issue è se vi dovrà essere una fusione a tre (Fondiaria-Sai-Toro) oppure a due, tra Fondiaria e una delle altre. La vera posta in palio però è la geografia del potere. Non è una storia da Wall Street, insomma, ma una da Dallas o da Beautiful. Con lo stesso potenziale di intrattenimento, per noi, ma anche di epos omerico per i personaggi coinvolti.

Tutto comincia l'estate scorsa, quando la Fiat, con alcuni alleati, scala Montedison. Montedison controlla Fondiaria, che a sua volta possiede poco più del 2 per cento di Mediobanca. In mano a Fiat questa quoticina sposterebbe gli equilibri interni alla banca d'affari, dove Maranghi e la famiglia Agnelli già da un po' si stanno affrontando. Sicché nel giro di pochi giorni Maranghi induce la Sai di Salvatore Ligresti a comprare il pacchetto di controllo al prezzo folle di 9,5 euro ad azione (in Borsa, ieri, Fondiaria ne valeva appena 6). Quando Fiat arriva sulla plancia di comando di Montedison, i giochi sembrano fatti. L'unica cosa buona per Fiat è il prezzo – e la caparra che la Sai ha già versato, 250 milioni di euro.

Ma nel contratto ci sono alcune clausole malandrine. Una, in particolare, si richiama alle decisioni delle autorità di vigilanza. Ai primi dell'anno l'Isvap boccia l'acquisizione: a ruota, Montedison annuncia che di conseguenza il contratto con Sai non è più valido, vende la quota alla Toro (gruppo Fiat), e proclama che si terrà la caparra, a meno che Sai non trovi entro l'inizio di febbraio un altro compratore allo stesso esorbitante prezzo.

Sì, campa cavallo! Di nuovo sembra tutto finito, e Fiat preme per una fusione a tre, che consentirebbe a Ligresti di non rimetterci troppo ma gli farebbe perdere il controllo di Sai. Già, però Ligresti è un duro, e Sai è la prima società di cui ha assunto il controllo nonché l'unica che gli rimane, grazie ai buoni uffici di Mediobanca, dopo che il suo impero è stato travolto da Mani Pulite. Mollarla? Da morto, forse.

A questo punto entrano in scena i tre dell'Ave Maria. Ma che ci guadagnano loro a rilevare Fondiaria? Be', Ligresti in questo modo riporta a casa la caparra (258 milioni di gocce del suo sangue), e non c'è dubbio che qualcosina sia disposto a cacciare. Volete che non abbia promesso ai tre una bella opzione put, per rivendere la quota alla Sai dopo un po' di tempo a un prezzo interessante? L'ha promessa, l'ha promessa. Se hanno deciso di giocare, è perché giocano sul sicuro. O quasi. Perché le puntate di questa storia, come quelle di Dallas e Beutiful, non finiscono mai. Occhi e orecchie aperti, amici telespettatori.


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Un mese di euro

(1° febbraio 2002) L'ha riconosciuto anche la Banca Centrale Europea, nel suo burocratico linguaggio centralbanchese: vi sono "alcuni elementi di incertezza" su possibili aumenti dei prezzi legati a passaggio dalle defungenti unità nazionali all'euro. Noi ce n'eravamo già accorti fin dai primi giorni, ma vi ricordate le rassicurazioni profuse a tutto schermo dai più diversi piloti dell'economia? A circa metà strada del cosiddetto "changeover", come stanno le cose?

Paolo Brera

Caoticamente, a livello dell'uomo della strada. Quasi tutti ormai stanno pagando in euro le piccole spese, con qualche imbarazzo perché la nuova valuta sembra diversa nella sostanza dalla vecchia, denaro del Monopoli più che denaro vero. Chi dava mille lire di mancia, oggi si sente tirchio a dare 52 centesimi, anche se in realtà sta dando qualcosina di più. Le macchine distributrici non sempre accettano gli euro e spesso danno i resti in inutili monetine denominate in lire, che saranno poi fatti nostri cambiare in denaro spendibile.

Guardiamoci da liquidare queste cose come colore o psicologia. Gli aspetti psicologici sono importanti. Le piccole somme in lire già non sono più denaro, mentre le monete ancora un po' marziane con cui oggi paghiamo tutto non lo sono ancora, o almeno non compiutamente, a livello di immaginario collettivo. Del soprassalto di inflazione che ormai è certo certissimo non sono colpevoli solo i negozianti che arrotondano al rialzo, ma anche i consumatori che non riescono a capire bene quanto stanno spendendo. Il bilancio mensile della massaia non è più chiaro nemmeno a lei stessa. Ci vorrà qualche settimana di confronto tra redditi e spese per recuperare davvero il senso del denaro.

Certo, la Banca Centrale ci rassicura: "non si prevedono effetti significativi sul livello medio dei prezzi nel breve termine". Questo sarebbe possibile "in gran parte grazie alle intense pressioni concorrenziali nel settore della distribuzione al dettaglio, alla perdurante vigilanza dei consumatori e all'impegno dei governi di non aumentare il livello medio dei prezzi amministrati". Possiamo anche crederci, non solo per l'Europa intera ma anche in particolare per il nostro Paese, visto che la mentalità dell'italiano d'oggi è molto diversa da quella di una ventina di anni fa – che faceva di noi, insieme, le cicale d'Europa (perché spendevamo senza fare i conti) e le sue formiche (perché il risparmio delle famiglie era il più alto del continente). Oggi le famiglie italiane accantonano solo il 14,5 per cento di quello che risparmiano, ma stanno ben più attente alla spesa. Anche perché con bassa inflazione può sempre convenire cercare una proposta migliore.

Al microcosmo al macrocosmo: dove di sicuro non si compra a buon patto è sui mercati valutari. L'effetto di cui si era tanto parlato – una maggiore percezione della realtà dell'euro, grazie alla sua nuova esistenza materiale in forma di banconote e dischetti di metallo – deve ancora manifestarsi. La valuta europea viene scambiata contro dollaro all'assurdo prezzo di 0,88: in termini di potere d'acquisto effettivo, l'euro dovrebbe invece valere di più del cugino d'oltre-Atlantico. Si era detto che ci avrebbero salvato gli evasori fiscali, i mafiosi russi e gli abitanti del Montenegro – tutta gente che usava il marco, era passata al dollaro per timore di farsi individuare a cambiare troppi marchi in euro, e adesso userà il successore del marco. Mah. In verità questa singolare terna di paladini dell'euro deve ancora farsi vivo. Psicologicamente, la transizione all'euro durerà ancora qualche mese, al di là della data del rien ne va plus per la lira e le altre valute europee di ieri, e sarà accompagnata da un po' più di inflazione di quanto non si prevedesse. Ma quando sarà finito e potremo guardarci indietro, ne saremo soddisfatti. Il passo era importante, ed era da fare. Ricordiamocelo sempre.


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Quella Germania così spendacciona

(29 gennaio 2002) Se nella riunione di oggi della Commissione europea, come appare molto probabile, il commissario agli Affari economici e monetari Pedro Solbes proporrà e otterrà di indirizzare un avvertimento preventivo alla Germania per il livello raggiunto dal suo deficit pubblico, la storia dell'euro prenderà una piega inedita. Inedita, e ironica. Nove anni fa, al momento in cui fu varata a Maastricht la costruzione che doveva portare alla moneta unica, si sentì il bisogno di redigere un Piano di stabilità e sviluppo che avrebbe impedito ai singoli Paesi – leggi: all'Italia – di deragliare il nascituro euro con un'eccessiva spensieratezza della loro finanza pubblica. Oggi è proprio lo Stato che allora era considerato il paradigma della virtù budgetaria, la Germania, ad essere richiamato in nome delle regole che aveva tanto insistito per imporre a tutti.

Paolo Brera

In base alle tendenze correnti il disavanzo pubblico tedesco toccherà, a quanto sembra, il 2,7 per cento del prodotto interno lordo (pil), un livello che è a un passo dal 3 per cento fissato a Maastricht. Il problema è la bassa crescita economica e la politica di alleggerimento fiscale del governo socialdemocratico: messe insieme, queste hanno scavato un solco fra le entrate e le spese. Se la Germania non prenderà immediati provvedimenti, potrebbe ritrovarsi a pagare le feroci multe previste dal Piano, cioè fino allo 0,5 per cento del pil.

Il meccanismo era concepito per impedire le pazzerellate dell'Italia e degli altri Paesi giudicati poco seri. I sondaggi sul gradimento dell'euro fra i tedeschi producevano non di rado risposte tipo "Come si può prendere sul serio una moneta in cui entreranno la lira e la dracma?".

Sarebbe stato meglio, in effetti, prenderla un po' più sul serio. I Paesi che si presentarono a Maastricht con i più alti deficit di bilancio, infatti, hanno da allora in poi lavorato sodo per riportare in pari i conti pubblici. Nel 2001 l'Italia ha avuto un disavanzo (stime Ocse) pari all'1,4 per cento del pil, cioè inferiore a quello della Francia. La Spagna è in equilibrio: lo Stato spende tutto quello che entra in cassa, ma neanche 1,66 pesetas (un cent) di più. Idem il Belgio. L'Irlanda è in forte avanzo. Il più grande spendaccione è proprio la Germania, con il 2,5 per cento.

La debolezza tedesca si sta riflettendo sull'intera economia di Eurolandia e sul valore esterno dell'euro. Gli undici Paesi che hanno adottato l'euro sono cresciuti dell'1,5 per cento nel 2001 (secondo le proiezioni dell'Economist) e cresceranno dell'1 per cento quest'anno: in entrambi i casi, più degli Stati Uniti e ovviamente più del Giappone, che da anni la crescita economica non sa neanche più che bestia sia. L'euro vale 86 centesimi di dollaro e se non fa rimpiangere il marco tedesco, valuta forte del bel tempo che fu, è solo perché il marco sarebbe sicuramente ancora più debole, vista l'indisciplina di bilancio della Germania.

Il mondo alla rovescia? Eh sì, eh sì. Il mondo continua a comprare dollari per partecipare ai dividendi di un'economia, quella americana, che cresce meno di quella dell'Europa, paga interessi minori, ha un'inflazione maggiore (anche se si tratta di un'inflazione da ridere), e accusa squilibri più acuti sia nella bilancia dei pagamenti che nei conti pubblici. Tutto rigorosamente alla rovescia. Ah, se ci fosse ancora la nostra lira! Con i parametri economici dell'Italia, sarebbe una delle monete più forti del mondo.


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L'Argentina mostra che il dollaro non è magico

(25 gennaio 2002) Saranno meno vistosi della distruzione delle Torri Gemelle, ma altri due avvenimenti, di natura prettamente economica, hanno colpito negli ultimi tempi gli Stati Uniti con grande durezza. Non è facilissimo rendersene conto, primo perché si tratta di due avvenimenti in apparenza eterogenei – la crisi argentina e il fallimento di Enron – , in secondo luogo i mezzi di comunicazione (e anche questo è a ben vedere un po' inquietante) non hanno calcato troppo la mano su questi due smacchi per l'immagine internazionale degli Stati Uniti.

Paolo Brera

Vediamo allora di ragionarci sopra. Sono quattro anni che il dollaro è una moneta forte. Si è detto che la sua forza derivava dall'efficienza del sistema americano, votato – grazie all'avvenuta incarnazione della New Economy su questa terra – ad una crescita senza più oscillazioni. Economisti del calibro di Jeffrey Sachs si sono spinti fino a raccomandare a diversi Paesi emergenti la dollarizzazione dell'economia, cioè l'adozione del biglietto verde al posto della valuta nazionale, così da creare condizioni di stabilità in cui l'economia potesse involarsi. Un Paese ci aveva già pensato da solo, l'Argentina; un altro ha adottato la misura da un paio d'anni, ed è l'Ecuador.

Da Quito comunicano che l'Ecuador ora come ora, si porta abbastanza bene, grazie. Ma Buenos Aires ha ammannito al resto del mondo il più grande default sul debito della storia mondiale. Conclusione obbligata: la New Economy sarà bella (ehm) e il dollaro sarà pure una valuta da rispettare, però non ha poteri magici. Prenderne nota.

Anche il sistema finanziario americano ci è stato vantato per anni come il nec plus ultra della trasparenza. Tutte balle, purtroppo. Il caso Enron (il più grande fallimento della storia mondiale) dimostra che un'impresa quotata può mentire grossolamente sui rischi inerenti alla sua attività e sullo stato dei suoi conti, farsi certificare i bilanci da una delle sei leader mondiali dell'auditing e farsi finanziare da una banca come la J. P. Morgan, la quale, a due giorni dall'inizio delle indagini sulla Enron, ha reiterato la sua raccomandazione agli azionisti di comprarne le azioni (se vogliamo essere pignoli, ha declassato il rating da BUY a LONG-TERM BUY – quando però sarebbe stato il caso di strepitare VENDI VENDI).

Incauta o disonesta l'Arthur Andersen, svagata o corrotta la J. P. Morgan, disattenti gli analisti di cui Laura Naka Antonelli, per il Wall Street Journal Italia, scrive che in molti "hanno riconosciuto la disastrosa situazione finanziaria della società solo dopo l'inizio delle inchieste giudiziarie il 22 ottobre. Quindi, a 'fatto compiuto', anziché contribuire a lanciare l'allarme di quella che sarebbe divenuta la più grande bancarotta nella storia degli Stati Uniti". Appunto, degli Stati Uniti, non della Slovacchia o dell'Italia.

Ora, in base all'aureo principio di chiudere le stalle quando non c'è più nessun pericolo di farsi travolgere dai bovini in fuga, il presidente della Sec (l'autorità di controllo sulla Borsa di Wall Street), Harvey Pitt, ha detto: "Il nostro sistema di controllo è il più accurato nel mondo, ma ha bisogno di essere implementato. La necessità di assicurare una maggiore trasparenza a favore degli investitori non può essere ignorata". Cuore di Cesare!.

Ricaviamone, per piacere, un discorso di cautela. Il sistema americano ha tanto pregi, ma non è opera di Dio, è opera dell'uomo, e quindi dobbiamo bene aspettarci che abbia qualche difetto. La trasparenza del mercato finanziario è una Cosa Buona e Giusta, ma non è ancora realizzata in terra come molti laudatori acritici ci avevano dato a intendere. La flessibilità dell'economia è un'altra Cosa Buona e Giusta, ma neanche negli Stati Uniti ha raggiunto la "perfezione della felicità" di cui parlava Saint-Just. Il dollaro è una moneta che dobbiamo rispettare, ma nel calderone delle fattucchiere può essere tranquillamente sostituito dalle code di rospo e dalle unghie di pipistrello, che hanno più o meno la stessa efficacia come ingredienti di filtri magici. Ultima considerazione obbligata: lo spirito critico è quello che ci distingue dalle bestie, tante delle quali hanno a suo tempo consigliato agli investitori di comprare azioni Enron od obbligazioni argentine, oppure le hanno acquistate esse stesse. E lasciamo stare, perché tutto sommato è secondario, se queste bestie fossero asini o volponi.


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Europa, è caduto un tabù

(25 gennaio 2002) C'è qualcosa di nuovo oggi in Italia: dopo decenni e decenni, è caduto un tabù, quello dell'Europa. Ultimo a pronunciarsi sull'argomento è stato il ministro Giulio Tremonti, che in un'intervista al Wall Street Journal ha parlato di una Commissione europea "invasiva" e caratterizzata da un eccessivo numero di regole nei confronti dei Paesi membri dell'Unione, allineandosi, in certa misura, ai critici sopra tutto britannici che parlano di un "deficit democratico".

Paolo Brera

Non era il primo, fra i membri del governo, a esprimersi in modo critico sull'Unione. Il ministro delle Attività Produttive, Antonio Marzano, è un noto euroscettico, così come quello della Difesa, Antonio Martino. Paradossalmente, però, proprio questo nuovo atteggiamento critico potrà forse accrescere il contributo dell'Italia alla costruzione europea.

Il nostro Paese è da sempre il più europeista dei Paesi europei. Solo la Spagna si avvicina a noi sotto questo aspetto. Ma è anche vero che siamo sempre stati europeisti un po' a modo nostro. Si elaboravano le regole che avrebbero retto un certo campo di attività in tutta l'Unione? L'Italia partecipava svogliatamente, spesso inviando ministri che non sapevano litigare in francese o in inglese e che si consideravano più o meno come in visita di piacere alle varie assise comunitarie. Se poi le regole che ne uscivano non piacevano, il correttivo era il solito correttivo italiano: ci "dimenticavamo" di osservarle. L'Italia è stata per anni il Paese con il maggiore contenzioso con l'Unione per il mancato rispetto delle norme comunitarie, pure varate, nominalmente, con l'assenso dei nostri rappresentanti.

Da qualche anno a questa parte la musica è cambiata. Non siamo più i grandi felloni della giustizia europea: recepiamo abbastanza in fretta le norme comunitarie e le rispettiamo anche, o perlomeno le rispettiamo in misura non inferiore alle altre norme. Due italiani – Romano Prodi e Mario Monti – hanno assunto posizioni di spicco nella Commissione europea, e tutto si può dire di loro meno che siano impreparati a svolgere il loro lavoro: lo fanno con prestigio e competenza.

Eppure, proprio per questo è necessario che al momento in cui si scrivono le norme si stia attenti a quello che viene scritto, e si facciano valere gli interessi nazionali. Che non sono soltanto quelli economici. Per fare un esempio, certe produzioni alimentari tradizionali, di altissima qualità e di altissimo significato culturale, potrebbero cadere vittime di una regolamentazione comunitaria che odia i microbi ed è disposta a farci mangiare sabbia e gesso piuttosto che farci correre il rischio di dover mettere in azione i nostri anticorpi.

Quanto al deficit democratico, è vero verissimo. La Commissione, che ha un'enorme influenza sulla nostra vita quotidiana, non è un organo elettivo; l'organo elettivo, che è il Parlamento europeo, incide poco o niente. Questa situazione potrebbe essere superata da quella Costituzione europea di cui si va parlando in questi ultimi mesi, quasi come un logico portato della moneta unica. Tremonti ha ragione da vendere quando dice che la redazione di questa Costituzione non può prescindere da procedure democratiche. Se l'Italia nella costruzione europea fa sul serio, è bene anche che si faccia valere con solide argomentazioni nel momento in cui le regole vengono discusse – non attraverso l'inadempienza quando è il momento di applicarle.

 

 


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Da Sai, Fondiaria e Toro il secondo polo assicurativo?

(6 gennaio 2002) Che cosa dobbiamo aspettarci nel settore assicurativo dopo i fuochi d'artificio della scorsa settimana, che hanno visto in rapida successione il veto dell'authority all'acquisizione di Fondiaria da parte di Sai e la fulminea cessione della quota, da parte di Montedison, alla Toro Assicurazioni? La via d'uscita che si sta delineando è la fusione a tre di tutte le compagnie interessate. E quel che è certo è che Vincenzo Maranghi, successore di Cuccia alla guida di Mediobanca ma del suo predecessore assai meno onusto di gloria, ha incassato un'altra sconfitta, pur se minore di quanto non appaia a prima vista.

Paolo Brera

Riepiloghiamo i fatti e alcuni retroscena. L'estate scorsa, mentre Fiat ed EdF scalavano Montedison, Mediobanca pensò bene di mettere al sicuro la Fondiaria (controllata dalla Montedison, a sua volta dominata da Mediobanca) facendone comprare la quota di controllo all'amico Salvatore Ligresti della Sai. Infatti Fondiaria custodisce una quota di Mediobanca stessa, all'interno della quale Maranghi è in dissidio con un gruppo di azionisti capitanati dalla famiglia Agnelli. Di qui la preoccupazione di preservare l'equilibrio nel momento in cui Montedison passava, per così dire, al nemico.

La cessione fu compiuta in fretta e furia e non si poté pesare tutto col solito bilancino cucciano di Mediobanca. Gli elementi certi erano due: un prezzo di €9,5 per azione e il passaggio a Sai del primo blocco, il 6,7 per cento delle azioni. Su tutto il resto imcombevano le autorizzazioni o le delibere dell'Antitrust, della Consob e dell'Isvap, quest'ultima essendo l'authority che sovrintende al settore assicurativo. L'Antitrust ha rimandato la propria decisione perché il controllo, in pendenza delle decisioni degli altri organi, non era ancora passato di mano. La Consob ha imposto a Mediobanca e Sai di fare un'offerta pubblica di acquisto sull'intero capitale di Fondiaria e dunque, a cascata, anche su Milano Assicurazioni (contro questo provvedimento Mediobanca ha fatto ricorso). L'Isvap, infine, ai primi dell'anno ha bocciato la fusione.

Montedison non aspettava altro. Il suo programma di ristrutturazione prevede la cessione di tutte le attività fuori dei settori dell'energia e delle telecomunicazioni: sicché il giorno dopo la delibera Isvap ha ceduto il 24,4 per cento di Fondiaria ancora in suo possesso alla Toro, una compagnia controllata dalla Fiat. La Fiat versione Fresco infatti sarà una conglomerata sul modello della General Electric (dalla quale appunto proviene l'amministratore delegato Paolo Fresco), con attività finanziarie accanto a quelle industriali. Quanto a Montedison, essa realizza una dolcissima plusvalenza e si tiene la caparra di 258 milioni di euro.

A questo punto Salvatore Ligresti ha un problema: ha acquistato una patecipazione di minoranza a un prezzo rovinosamente alto e ha perso la caparra per la parte rimanente della quota ex-Montedison: due cose che agli azionisti di minoranza potrebbero far montare il testosterone alle pupille. Anche Vincenzo Maranghi ha un problema: non solo si indebolisce nell'azionariato Mediobanca, ma urbi et orbi è ormai noto che a seguire i consigli di Mediobanca si possono rimediare anche fregature disastrose (ahi, così non era quando c'era Cuccia!).

Uno scioglimento del tipo "chiadato" (chiadato ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto ha avuto, scurdammoce 'o passato) non sembra tuttavia possibile, perché anche la Fiat ha i suoi problemi. Due sono la Consob e l'Isvap, come per Ligresti. Il terzo è la presenza nell'azionariato Fondiaria di Sai e Mediobanca, che – in sede di assemblea straordinaria – hanno la forza di bloccare ogni integrazione societaria con Toro.

Gli altri scioglimenti possibili sono due. Primo, nel giro di un mese Sai trova un altro acquirente per la quota allo stesso astronomico prezzo di €9,5 per azione: così almeno non perde la caparra, anche se la Toro ha comunque un diritto di prelazione. Facile come fare sei al Superenalotto. Secondo, si mettono tutti d'accordo e fanno nascere il secondo polo assicurativo italiano, Sai-Fondiaria-Toro. E l'Antitrust? E l'Isvap? Be', c'è anche chi dice che la preoccupazione sia eccessiva, il mercato di riferimento non è più quello italiano ma quello europeo e su questo le compagnie più grandi dell'immaginata aggregazione sono più d'una. Tutti manderebbero giù qualche boccone amaro (la Fiat, a onor del vero, meno di tutti gli altri) ma si creerebbe, alla fin fine, una situazione vivibile. Bisognerà vedere se il consiglio di amministrazione Sai di oggi prenderà questa via e non piuttosto quella della carta bollata.


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Verso un balzo dell'inflazione in gennaio

(6 gennaio 2002) I segnali sono ancora impressionistici, non hanno l'autorità delle rilevazioni statistiche, ma sono così forti da non permettere altra conclusione: in Italia l'introduzione dell'euro provocherà, in gennaio, un sobbalzo dell'indice dei prezzi al consumo. Questo balzo potrebbe anche essere del 3 per cento e più.

Paolo Brera

Sotto accusa, naturalmente, il gioco degli arrotondamenti e l'effetto "valuta estera" per tutta la popolazione italiana. Il primo fa sì che una tazza di caffè al bar, che costava 1500 lire in dicembre (0,77 euro), adesso ne costa il più delle volte 0,80 (+3,9 per cento). I baristi si giustificano: dover dare troppe monetine di resto allunga ulteriormente i tempi delle operazioni di pagamento, già dilatati in misura irritante dalla necessità di prendere e di contare dischetti di metallo poco familiari. Non mancano neppure, a dire il vero, gli esempi di arrotondamento per difetto: ma che siano tanti, proprio no. Si ha l'impressione che i commercianti abbiano preso la scusa della conversione all'euro per tirare un po' su i prezzi. Come hanno fatto, del resto, diversi monopoli di Stato.

L'effetto "valuta estera" impedisce una immediata percezione delle somme in gioco, e quindi non consente di prendere decisioni immediate. I consumatori, per avveduti che siano, non hanno né il tempo né la voglia di fare troppi conti per ogni piccolo acquisto, né di cercarsi un altro fornitore se il prezzo risulta aumentato (posto che sapessero quello di prima). I negozianti i conti li fanno, per forza, e per di più basta che li facciano una volta per tutte, al momento di fissare il loro nuovo prezzo.

Altri tre fattori, forse un po' sottovalutati, potrebbero influire anch'essi sul livello dei prezzi. Il primo è l'effetto scorte: parte delle lire che ciascun italiano tiene con sé diventano di fatto inspendibili: non tutte infatti saranno poi davvero convertite in euro (l'effetto sarà ancora più sensibile per le piccole scorte di lire detenute all'estero, per esempio gli spiccioli rimasti in tasca ai turisti stranieri). Ciò ridurrà l'offerta di moneta. Questa offerta peraltro sarà invece accresciuta dalla riconversione dei capitali sporchi, per esempio quelli della mafia russa, che nei mesi scorsi sono stati cambiati in dollari e adesso torneranno pian piano indietro. Il terzo effetto è un effetto di cautela. In attesa di impratichirsi con la nuova valuta, gli italiani rimandano alcuni acquisti. Unita alla riduzione dei prezzi all'ingrosso che si è verificata negli ultimi mesi, questa cautela dovrebbe agire in senso opposto a quello degli arrotondamenti.

È impossibile pesare l'influenza rispettiva di questi tre fattori e dei precedenti. Bisogna poi tener conto di ciò che sta intanto accadendo negli altri Paesi dell'euro: con una moneta unica anche l'inflazione è unica, e là dove l'unità monetaria di ieri è più simile all'euro di quanto non sia la lira – è per esempio il caso del marco, i cui sottomultipli assomigliano a quelli della nuova moneta – anche gli effetti psicologici della conversione saranno diversi. Inoltre, anche da noi non ci vorrà poi molto per abituarsi.

Il risultato del 2002 in termini di tasso d'inflazione resta dunque impregiudicato, quali che possano essere i soprassalti dei prossimissimi mesi. Resta il fatto che difficilmente si potrà ancora parlare di un passaggio all'euro del tutto indolore. Un'altra sola di Duisenberg.


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Argentina, dollarìzzati e poi muori

(27 dicembre 2001) Un comitato di piccoli obbligazionisti italiani ha scritto al governo argentino di essere disposto a dilazionare le scadenze anche di dieci anni, purché non siano toccati capitale e interessi: siamo piccoli risparmiatori, avrebbero detto, e anche l'Italia negli anni Settanta ha attraversato un periodo di difficoltà simile a quello odierno dell'Argentina: comprendiamo e perdoniamo, e siamo pronti ad aspettare, ma non è giusto che perdiamo i nostri soldi. Questa notizia pubblicata dall'Economist getta una nuova luce sul problema dell'Argentina, che è anche – con un quarto delle obbligazioni emesse dal Paese sudamericano in mano ad obbligazionisti italiani – un vero problema dell'Italia.

Paolo Brera

È difficile che l'accorata lettera dei risparmiatori italiani sortisca qualche risultato, perché l'Argentina è veramente troppo nei guai perché i suoi creditori, a qualunque categoria appartengano, possano uscirne indenni. Quello argentino è il più grande caso di default nella storia della finanza mondiale. Il debito del Paese sudamericano ammonta a circa 164 miliardi di dollari. E il problema è semplice: sono troppi soldi perché le istituzioni internazionali possano intervenire in aiuto del Paese senza imporre sacrifici a tutti, obbligazionisti o intermediari finanziari. Qui sta il nodo di tutto.

Gli intermediari finanziari, lo dice la parola stessa, sono specialisti della finanza. In quanto tali hanno il dovere di essere bene informati e nessun diritto di essere tratti d'impaccio se sbagliano, a meno che non vi siano interessi più generali da proteggere. Al contrario gli obbligazionisti sono molto spesso piccoli risparmiatori, il più delle volte indotti all'acquisto dal loro intermediario finanziario di fiducia (la banca dietro l'angolo).

Fino a un paio d'anni fa si pensava che l'esigenza di mantenere liquido il mercato globale delle obbligazioni imponesse di mandare esenti gli obbligazionisti dai danni di un default. Ma dal 1999 a oggi ci sono stati i due casi dell'Ecuador e dell'Ucraina, nei quali il messaggio delle istituzioni finanziarie internazionali è stato "caveat bondholder" – tradotto dal latino finanzo-maccheronico: stia in guardia l'obbligazionista: anche lui può e deve essere chiamato a rispondere delle sue scelte patrimoniali.

Può essere visto come un'ingiustizia che i piccoli siano danneggiati. Ma quello che senza dubbio risulta del tutto ingiusto è che non perdano soldi e non siano magari anche un po' svillaneggiati quei guru internazionali, cioè per lo più americani come Jeffrey Sachs, che negli anni passati hanno intonato autentici peana alla "dollarizzazione", raccomandandola ai Paesi in via di sviluppo come una panacea. La dollarizzazione è precisamente uno dei motivi principali per cui l'Argentina si trova oggi nelle peste.

Il peso argentino, infatti, è stato per anni legato al dollaro da un tasso di cambio fisso e semplicissimo (un peso per un dollaro), agganciato a un sistema di "currency board" (ogni peso emesso corrispondeva a un dollaro nelle casse della Banca centrale). Questo sistema apparentemente inossidabile ha privato il Paese di ogni discrezionalità nella gestione del cambio, ha angariato gli esportatori e depresso l'economia, senza per questo impedire l'accumularsi di un debito pubblico e privato denominato in dollari che adesso, da qualche giorno, non sono più uguali ai pesos e quindi sono ben più difficili da restituire per chi ha debiti in dollari e introiti in pesos. Aspettiamoci un'ondata di fallimenti e un calo del tenore di vita in questo Paese che ha grandi risorse e un alto grado di cultura. Speriamo però di avere almeno la consolazione di non sentir più esaltare il dollaro come se avesse proprietà magiche.


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Negri Bossi, la cometa della Borsa

(27 novembre 2001) Quotarsi in Borsa, da subito perdere rispetto al prezzo di collocamento, fare un'acquisizione ed essere bersaglio di un'Opa ostile, il tutto nel giro di tre settimane. Può capitare, nella Borsa italiana. Ed è capitato: alla Negri Bossi, un'impresa di Cologno Monzese, presso Milano. Con due chicche aggiuntive: prima di quotarsi era stata oggetto di un management buyout, e ora che è sotto Opa ha dato la stura a dubbi sul ruolo dell'advisor che a suo tempo l'ha collocata a piazza degli Affari, il Credem, il quale oggi appoggia coloro che vogliono acquisirla.

Paolo Brera

Traiettoria rapida al par d'una cometa, se non altro. L'antefatto è il management buyout del 1999, che consegna l'impresa fondata nel 1947 da due artigiani (Pietro Negri e Walter Bossi, appunto) al fondo chiuso Ridgeway Investments e, per un 13 per cento, ai manager e dipendenti. La quotazione (avvenuta con l'aiuto di Abaxbank, del gruppo Credem, e di Banca Akros) assegna invece il 58 per cento del capitale al mercato. Questo però appena si trova in mano le azioni comincia a scaricarle come se puzzassero: dal 6 novembre, primo giorno di quotazione, il prezzo di Borsa si mantiene costantemente al di sotto dei 2,86 euro dell'assegnazione. Il management di Negri Bossi va avanti imperterrito: il 22 novembre viene annunciato l'acquisto per 5,5 milioni di euro della Oima di Treviso. "Con questa acquisizione", si legge nella nota della Negri Bossi, "nasce un gruppo leader nella progettazione e commercializzazione di macchine per lo stampaggio delle materie plastiche, con 134 milioni di euro di fatturato consolidato pro forma nell'anno 2000, 450 dipendenti e 18.000 macchine installate nel mondo."

Succoso, succosissimo. A tal segno che qualcuno si sta già muovendo per addentare il boccone: Hps, una società di Imola interamente controllata dalle cooperative della Sacmi, emette un'offerta a 3,1 euro per il 60 per cento della Negri Bossi. Advisor dell'offerta… Abaxbank (già sentito, vero?). "Un buon valore, con un premio favorevole per gli azionisti", si esalta Augusto Machirelli, presidente di Hps. Le prospettive? Magnifiche! sempre a detta di quelli della Sacmi. L'obiettivo è creare un gruppo specializzato nell'impiantistica industriale, capace di primeggiare a livello mondiale nel food&beverage basato sulla lavorazione di contenitori in materie plastiche (non ci posso nulla, parlano proprio così, nel ramo). Negri Bossi ha fatturato nei primi nove mesi del 2001 70 milioni di euro, sicché l'acquisizione porterebbe il fatturato complessivo della Sacmi a circa 670 milioni.

Frenetiche trattative sono in corso da domenica passata fra gli acquisitori di belle speranze e i frastornati azionisti-manager della Negri Bossi. In Borsa, il titolo è esploso in una festa di mortaretti: a fare i conti, chi ha comprato il titolo nel collocamento e lo rivende ora introita una plusvalenza annualizzata oltre il 100 per cento, e tu sputaci sopra, se te la senti!

Resta un interrogativo: ma non ci sarà un qualche conflitto di interesse da parte del Credem? Affari Italiani, un'agenzia finanziaria online, l'aveva fatto notare subito. Ad avvalorare l'ipotesi era poi giunta la notizia secondo cui l'istituto emiliano detiene una partecipazione del 2,235 per cento di Negri Bossi, una quota rastrellata sul mercato prima del 13 novembre scorso, quando il titolo era ai minimi. Insider trading? Al Credem negano: "Né insider trading né conflitto di interessi", dice l'addetto stampa. "Sono tutte operazioni regolari, di cui la Consob era ed è perfettamente al corrente e sulle quali non ha sollevato obiezioni." Infatti lo sponsor, in un collocamento, ha il dovere di assicurare liquidità al mercato, e appunto questo avrebbe fatto Abaxbank, rivendendo tutte le azioni prima che venisse resa nota l'Opa e i prezzi schizzassero verso l'alto. Molto rumore per nulla, insomma.


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Lire in Euro, la semplicistica soluzione di Tremonti

(19 novembre 2001) Sembra un paradosso… ma forse, a pensarci bene, non lo è affatto, è anzi tipicamente italiano non sapere ancora cosa fare a pochi giorni da una grande e determinante scadenza, qual è quella del 1° gennaio 2002, a partire dalla quale sorge l’obbligo per tutte le società di convertire il loro capitale dalle lire in euro. Ma è quanto sta accadendo!

Nicola Sardi

Eppure il ministro dell'economia Giulio Tremonti ci aveva assicurato che, nel famoso "pacchetto dei primi 100 giorni", lui che ha il "pallino" delle semplificazioni, avrebbe inserito tra queste un provvedimento risolutivo del problema. Ma cosa angustiava le società, in sintesi?

Prima di tutto, a monte, si dibatteva se fosse giusto che per un adeguamento di legge europea, che dovrebbe costituire un automatismo, le società dovessero sostenere dei costi anche solo per comunicare che dal 2002 il loro capitale sociale e la divisione di questo in quote tra i soci non sarebbe più stato espresso in lire, ma in euro, gia dovendo comunque sostenere ingenti spese per l'organizzazione dei loro impianti contabili e di bilancio, imposte dall'uso della nuova valuta.

Poi era emerso che, dal punto di vista civilistico, tale operazione, sia per le società di persone, sia per quelle di capitali non potesse che essere considerata come una modifica dello statuto, con il conseguente obbligo d'intervento del notaio per redigere un verbale d'assemblea straordinaria dei soci per adeguarlo, anche solo nominalmente, all'euro.

Infine, ci si pose la questione se il valore delle quote potesse contenere decimali, cosa non consentita con le Lire, ma obbligatoria con l'euro, ipotesi che, soprattutto per le assai diffuse S.r.l., appariva dunque superabile solo con una modifica del codice civile, che per esse impone che le quote siano espresse in un valore nominale non inferiore ad un euro (prima L. 1000), o ad un suo multiplo.

Qual’è stata la soluzione normativa portata da Tremonti a fine ottobre? Dire che per tutte le società di capitali comunque si può attuare una procedura solo meno costosa, cioè con semplice delibera dell'organo amministrativo (anziché dell'assemblea), che andrà iscritta entro fine anno nel registro delle Imprese competente, senza obbligo d'intervento del notaio, né di omologazione da parte dei tribunali. Per le numerosissime società di persone, invece, la disposizione afferma che per queste società la trasformazione costituisce "un mero atto interno da adottare con semplice delibera dei soci".

Il successivo chiarimento ministeriale, prontamente divulgato, ha la faccia tosta di sostenere che, in sostanza, è stato definitivamente risolto il problema, poiché afferma che la legge ha fornito le indicazioni di semplificazione valide per tutte le società, per procedere alla trasformazione del capitale in euro!

Grazie signor ministro per i maggiori costi notarili che in questo modo si potranno evitare, ma la questione degli inevitabili decimali che si formeranno nel ricalcolo delle quote è risolvibile solo con un verbale notarile di assemblea straordinaria, in quanto Lei non ha detto che le quote possono essere espresse anche con i decimali e anche senza che costituiscano un multiplo di un euro.

E le società di persone presumono che con l'espressione "mero atto interno", si sia voluto intendere che tale atto non necessiti neanche dell'iscrizione nel registro delle Imprese, ma sarebbe stato forse pretendere troppo precisare loro a chiare lettere se sia effettivamente così e come vada fatto questo atto con semplice delibera dei soci, visto che queste società non hanno l'obbligo di tenere i libri sociali su cui trascrivere le deliberazioni?

A questo punto crediamo che sia più corretto ritenere il provvedimento del ministro Tremonti, più che una vera semplificazione, una soluzione un po’ troppo semplicistica…


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Montedison, terremoto nell'energia e nelle tlc italiane

(30 ottobre 2001) A tre mesi dall'acquisizione del gruppo Montedison da parte di Italenergia, la montagna ha rumorosamente partorito: e per una volta non si tratta di un topo ma di una cosa molto seria, un vero e proprio terremoto. Il piano, che reca la firma di Fiat più che di qualunque altro fra i partner, è chiaro: da una parte si vuole creare un leader nel mercato italiano e internazionale dell'energia elettrica e del gas e un comprimario nel settore delle telecomunicazioni, dall'altra si punta a dismettere tutto il resto per fare il pieno di cash.

 Paolo Brera

Anche sul piano della finanza c'è un bel po' di movimento. Il riassetto prevede infatti una notevole semplificazione societaria, con una catena di controllo che sarà ridotta all'essenziale. Ciò avverrà tramite la fusione in Montedison e poi in Italenergia stessa di Edison, Fiat Energia e Sondel. Infine, per ricostituire il flottante Montedison in Borsa, sarà varata la trasformazione delle azioni di risparmio in ordinarie.

Il piano prevede anche che la Falck, alleggerita delle partecipazioni energetiche, si distacchi e ritorni sotto l'egida della famiglia omonima, che conserverebbe quindi l'acciaio, i servizi, una quota del 4,9 per cento di Sondel da concambiare prontamente in azioni Montedison, e alcune partecipazioni di minoranza, fra cui IntesaBci e Unicredito (questa clausola può essere vista come una concessione a Mediobanca, nella quale le due banche hanno una quota rilevante). In più, la famiglia Falck riceverà la società di impiantistica del gruppo Montedison, cioè la Tecnimont. Commentando il piano, Alberto Falck ha dichiarato: "L'accordo raggiunto consente alla Falck di riacquistare piena autonomia nello sviluppo degli investimenti in essere e di entrare, attraverso la Tecnimont, nel settore dell'ingegneria impiantistica attorno al quale realizzare il nuovo core business della Falck".

Nell'energia, la nuova Edison-Italenergia parteciperà all'asta per la genco scorporata dall'Enel, Eurogen, attraverso il consorzio Edipower, cui parteciperanno anche Aem Milano con il 13,4 per cento, Atel ed Aem Torino con il 13,3 per cento ciascuna. Il 40 per cento sarà di Edison-Italenergia e il rimanente 20 farà capo a investitori finanziari.

Nelle telecomunicazioni, secondo quanto ha scritto Giorgio Lonardi su Repubblica, l'obiettivo sarebbe quello di far nascere il terzo polo italiano, dopo Telecom Italia e Nuova Wind. Secondo Lonardi, in esso confluirebbero Edisontel, Atlanet (controllata da Fiat e Telefónica), Albacom (in cui i principali azionisti sono British Telecom, Bnl, Eni e Mediaset) e i.Net (azienda quotata al Nuovo Mercato e controllata da British Telecom). In questi termini, la notizia non è stata confermata, ma Umberto Quadrino non l'ha neanche esclusa: "Abbiamo aperto un discorso con Atlanet, ma se nuovi partner si affacciano, ben vengano".

Le partecipazioni in Eridania-BéghinSay, Ausimont e Antibióticos, oltre ad altre minori, saranno invece cedute per ridurre l'indebitamento del gruppo. Eridania era già stata scissa in quattro imprese distinte, e una di esse, Cerestar, è stata ceduta proprio ieri all'americana Cargill, con una minusvalenza di circa 90 milioni di euro e il deconsolidamento di 400 milioni di euro di debiti.

Per effetto delle dismissioni, la posizione finanziaria netta del gruppo Italenergia dovrebbe migliorare complessivamente di 6,4-7,0 miliardi di euro entro il 2002, con la conseguente riduzione di essa da 13,2 a circa 6,8 miliardi di euro. Già entro il 2001 saranno conclusi accordi che porteranno ad una riduzione dell'indebitamento complessivo di circa 2,4 miliardi.

Il compimento di questo piano segnerà anche, sia detto en passant, una tappa decisiva verso la trasformazione della Fiat stessa in una conglomerata, con interessi decisivi in settori anche molto lontani da quello dell'auto. Anche questo, se vogliamo, è un piccolo terremoto nel panorama del business italiano.


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Rogatorie, un patto politico?

Nicola Sardi

(27 ottobre 2001) Un mese esatto. Il 27 settembre il governo Berlusconi, pur dopo accese polemiche e una sconfitta sul campo a causa di un emendamento ottenuto dall'opposizione grazie ai franchi tiratori del centrodestra, ha incassato la vittoria finale, essendo stata approvata la nuova legge sulle rogatorie.

Questa è l'ennesima legge fatta su misura per il capo del governo, dopo quella sul falso in bilancio e dopo quelle per i due condoni sul lavoro in nero e sul denaro nero illegalmente portato all'estero, mentre la prima questione che invece c'era da risolvere con urgenza, la legge sul conflitto d'interesse, continua a latitare dagli ordini del giorno delle riunioni governative.

Da quel giorno, mi ronza in testa un più che legittimo sospetto: esiste un patto politico tra Berlusconi e il centrosinistra, che prevede il ritorno al potere di quest'ultimo dopo che sua Emittenza sarà riuscito a scrollarsi di dosso tutte le questioni giudiziarie che da anni lo opprimono e a trarre i maggiori vantaggi possibili per le sue aziende?

Direte che non è possibile, in quanto uno come Berlusconi il potere non accetterebbe di mollarlo mai… Ma sono troppe le domande alle quali, dopo il 27 settembre scorso, non riesco più a dare risposte.

La prima è: perché la legge sul conflitto d'interesse non l'ha fatta il centrosinistra nei cinque anni precedenti? Forse perché quest'argomento irrisolto, che già aveva determinato la caduta del primo governo Berlusconi, potrebbe costituire l'ulteriore débâcle anche per l'attuale?

Un'altra domanda è: perché il centrosinistra non ha fatto la legge sulle rogatorie prima di abdicare, pur avendola avuta per mesi in calendario?

È comprensibile che il centrosinistra al potere non potesse chiedere di far approvare leggi di condono, ma assolutamente incomprensibile è perché sulla legge delle rogatorie abbia scelto di fare seppuku.

La legge proposta, non tanto per i suoi aspetti formalistici, ma unicamente per la sua previsione di retroattività ai procedimenti in corso è, senza dubbio, dal punto di vista giuridico, scandalosa: le nuove norme di diritto sostanziale in campo penale si applicano sì retroattivamente a favore del reo (principio di legalità: nessuno può essere punito per un fatto che la legge non cosideri più sanzionabile), ma pretendere che anche una nuova disposizione di diritto procedurale si applichi ai processi in corso, è macroscopicamente incostituzionale. Infatti, è evidente che viola la parità processuale tra le due parti del processo penale, pubblico ministero e imputato. È come dire: tu, pubblica accusa, che hai ottenuto legalmente delle prove in base alla legge del tempo in cui hai fatto gli atti, contro i quali all'epoca il difensore dell'imputato si sarà, pur vanamente, opposto, non hai più la possibilità di utilizzarle perché ora per la nuova legge sono considerate illegali! E, naturalmente, questa retroattività opera in una sola direzione, cioè per le prove portate dal pubblico ministero e non per quelle offerte dalla difesa dell'imputato.

Questo determinante concetto veniva esposto nella "pregiudiziale di costituzionalità" presentata dal ds Antonio Soda, bocciata il 27 settembre dal centrodestra per 229 voti contro 186. Ma perché quella mattina alle 9,00 alla Camera dei Deputati non c’erano in aula tutti i 253 deputati dell'Ulivo che avrebbero, a conti fatti, portato ad incassare la vittoria decisiva? D'Alema e Rutelli, ad esempio, dove eravate quel 27 settembre? Ancora al bar a consumare la colazione, o, peggio, in barca a vela o a giocare a golf?


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Se bin Laden non ci mette di nuovo lo zampino,
l'economia potrebbe anche riprendersi in fretta

(27 ottobre 2001) E se gli attentati dell'11 settembre si rivelassero, alla fin fine, non già l'evento cruciale per l'involo di una recessione, ma quello cruciale per avviare la ripresa? Il sasso nello stagno l'ha gettato George Soros, il finanziere e filantropo ebreo noto per esser diventato uno degli uomini più ricchi del mondo grazie a una filosofia di investimento "contrariana", cioè, in parole povere, per aver sempre visto più lontano degli altri ed essersi regolato di conseguenza nelle sue scelte finanziarie.

 Paolo Brera

Certo, la maggior parte delle voci autorevoli raccolte dai media, così come i dati economici, puntano in senso opposto – se no Soros che contrariano sarebbe? Il Libro Beige sull'economia americana, compilato e diffuso nei giorni scorsi dalla Fed, parla di un arretramento di tutti gli indicatori economici e di incertezza sull'evoluzione a lungo termine. Il Giappone è di nuovo in recessione, per la quinta volta in dieci anni. Per la Germania si prevede, in pratica, una crescita zero nel 2001, mentre il 2002 è avvolto in fitte brume. E si potrebbe andare avanti, perché nel mondo solo la Cina ancora mantiene un tasso di crescita vivace.

Eppure, rispetto a prima dell'11 settembre, alcune cose importanti sono cambiate. La prima, come ha messo in rilievo Soros, è che nessun governo e nessuna banca centrale è più incline a sottovalutare il problema della recessione (tranne beninteso quella europea, la nostra banca-Frankenstein di Francoforte). L'Amministrazione Bush è stata la più rapida a muoversi, prendendo cospicue decisioni di spesa e anticipando i previsti tagli alle tasse. Ma anche gli altri governi stanno entrando nell'ordine di idee di somministrare all'economia una buona cura keynesiana a base di spesa pubblica. Addirittura il primo ministro tedesco Gerhard Schröder ha detto chiaro e tondo di non considerare più sacrosanto il limite del 3% al deficit pubblico stipulato nel Patto di Stabilità (l'intesa fra i governi dell'euro che ha accompagnato la nascita della moneta unica): e questo sebbene il Patto stesso fosse stato a suo tempo un'idea tedesca.

Il secondo mutamento è forse ancora più importante e concerne la psicologia della gente. Certo, l'impatto primo degli attentati è stato fortemente depressivo: la gente si è chiusa in casa e ha rimandato ogni spesa, mentre le imprese hanno a loro volta tirato i remi in barca sugli investimenti. Ma il clima di fiducia era in via di deterioramento già da un anno, e il colpo subìto potrebbe averlo fatto peggiorare a tal segno da avviare un rimbalzo, come è legge abbastanza generale degli accadimenti psicologici. Questo rimbalzo è oggi molto visibile sopra tutto nelle Borse del mondo.

È chiaro che gli eventi militari, specie se dovessero esserci grossi rovesci per la coalizione guidata dagli Usa, potrebbero gelare il rimbalzo e provocare una nuova fiammata di insicurezza e pessimismo. Ma sul piano strettamente economico non si scorgono veri e propri ostacoli ad una prossima ripresa. L'inflazione non è un problema, le spese militari stanno già cominciando a galvanizzare alcuni settori economici, i tassi d'interesse sono bassi e il petrolio sono tre anni che non era così a buon mercato. Preoccupiamoci dunque del terrorismo: quanto all'economia, si tirerà ben su da sola.


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Signor Duisenberg, il vero pericolo è la deflazione,
e ce lo insegna il Giappone

(20 ottobre 2001) Chi ha vissuto in età non infantile gli anni Settanta sa che cosa vuol dire realmente la parola inflazione. In quegli anni la gente spendeva in fretta i suoi soldi e senza badare troppo al prezzo, tanto era matematico che un mese dopo il prezzo sarebbe stato diverso e più alto. Era l'inflazione, quella vera, quella che si misurava in percentuali a due cifre prima della virgola e a volte superava il 20 per cento all'anno.

Paolo Brera

L'aumento dei prezzi esiste ancora, ma l'ultimo anno in cui in Italia è stato superiore al 5 per cento (un tasso non alto, ma neanche impercettibile per la gente comune) è stato verso la metà degli anni Novanta. Se si prende l'Unione Europea nel suo complesso, bisogna camminare un bel po' a ritroso per trovare tassi di aumento del genere. La regola è un 2-3 per cento all'anno di inflazione, con piccole variazioni a seconda della definizione precisa di ciò che viene misurato, dei prezzi che entrano o meno nell'indice.

Un simile tasso di inflazione, sopra tutto in un periodo di rapida innovazione nei prodotti, equivale in pratica alla stabilità dei prezzi (i prodotti nuovi costano sempre un po' di più di quelli che sostituiscono, ma sono anche migliori, quindi non c'è un vero aumento di prezzo). Con tassi del 2-3 per cento non nasce nella gente la psicologia inflazionista, quella per cui non si soppesano le decisioni di acquisto ma si danno per scontati forti rincari di tutto in tempi brevi, per cui non si esita a indebitarsi, per cui si corrono a comprare beni rifugio anziché investire. Con un tasso del 3 per cento ci vogliono ventitré anni perché il valore di un gruzzolo messo sotto il materasso si dimezzi: c'è tutto il tempo di arginare la piccola emorragia mediante saggi investimenti.

In tutta modestia, suggerirei a Wim Duisenberg di leggersi e meditare le poche righe qui sopra, perché ne ha molto bisogno. Duisenberg (il cui nome si pronuncia, a riuscirci, Döüssberkh) è il governatore della Banca Centrale Europea, detta anche Banca Frankenstein perché l'abbiamo creata noi mettendo insieme pezzi delle precedenti banche centrali nazionali, le abbiamo bisbigliato all'orecchio Vai bella e difendici dall'inflazione, e l'abbiamo poi vista combinare orribili e imprevisti sfracelli. Sono ormai due anni che la Bce evita di agire con decisione sul livello dei tassi d'interesse, sebbene le bestie nere di oggi siano la recessione e la deflazione, non l'esplosione dei prezzi.

Già, la deflazione. Quella quasi non c'è quasi più nessuno che se la possa ricordare, perché l'ultimo episodio deflazionistico in Italia risale agli anni Trenta, e non era neanche particolarmente intenso. Nel mondo si sono avuti anche cinquant'anni di seguito di diminuzione dei prezzi, nell'Ottocento. Ma se vogliamo vedere che cos'è e quanto danno fa la deflazione, non dobbiamo fare altro che andare in Giappone.

Nel dicembre 2000, secondo i dati dell'Ocse, i prezzi al consumatore giapponesi erano in media più alti dell'1,5 per cento rispetto al 1995, contro un aumento dell'11,7 per cento nell'Unione Europea e del 14,2 per cento negli Stati Uniti. Virtù? No, vizio. Nello stesso arco di tempo infatti il prodotto interno lordo del Giappone (cioè il valore dei beni e servizi creati nel Paese nel corso di un intero anno) è cresciuto in tutto dell'1,6 per cento, un record negativo fra i Paesi industrializzati. La Norvegia, seconda in questa graduatoria alla rovescia, è pur sempre cresciuta del 4,1 per cento, l'Italia, che è quinta, del 5,8.

La deflazione si sta aggravando, come nota l'Economist nel suo ultimo numero, e a quanto pare i prezzi nei negozi giapponesi stanno oggi cadendo al ritmo del 2 per cento all'anno. Gli effetti sono inquietanti. La gente preferisce i contanti agli investimenti, sia finanziari che reali, perché i contanti danno comunque un tasso di rendimento sicuro del 2 per cento: fra un anno ciò per cui adesso mi chiedono 100 lo potrò comunque avere per 98, e magari potrò addirittura comprarmi, allo stesso prezzo, un prodotto nuovo e migliorato. Chi ha contratto un mutuo per comprarsi la casa deve fare tremende economie per rimborsarlo: ogni rata, in termini reali, pesa più della precedente.

Né si comportano diversamente le imprese. La deflazione rovina chi ha debiti, perché l'onere reale del loro rimborso continua ad aumentare. Perciò le imprese si tengono stretti i contanti e appena possono ripagano i debiti, anche a costo di non investire. Le banche, che nel sistema giapponese hanno un terribile problema di crediti in sofferenza, lo vedono aumentare di anno in anno, perché la stessa somma che ne esprime l'ammontare di anno in anno in termini reali aumenta. Per di più il mercato creditizio è ingessato: pochi chiedono credito (e quei pochi sono i peggiori) e poco credito viene di fatto concesso: sono 44 mesi, anzi, che il volume degli impieghi bancari sta scendendo.

In queste condizioni l'economia non si può riprendere perché nessuno spende e nessuno investe a causa degli squilibri, mentre gli squilibri continuano ad aumentare perché l'economia non si riprende e il valore reale dei "saldi finanziari" continua a lievitare – in altri termini, gli squilibri si aggravano. Come risultato si hanno recessione e crescita della disoccupazione.

Questa, signor Duisenberg, è la deflazione, e Lei ha fior di ricercatori a Francoforte che sicuramente la informano in dettaglio sulla mostruosità di essa. Ma forse Lei pensa che il fenomeno non ci riguardi.

Invece ci riguarda fin troppo. L'America sta già facendo conoscenza con le prime avvisaglie del morbo nipponico: cause per certi versi simili cominciano a produrre effetti simili. L'Europa non è ancora a quel segno, ma potrebbe arrivarci nel giro di pochissimo. La psicologia deflazionista, proprio come quella inflazionista, una volta affermatasi è molto difficile da sradicare: nel mondo, la deflazione degli Anni Trenta si arrestò solo con la guerra mondiale, e anche oggi una guerra porterebbe sicuramente alla fine della deflazione, ma è ovvio che non si tratterebbe di un male minore. Di quello, signor Duisenberg, Lei non dovrebbe portare la responsabilità. Per una recessione, sì.


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C'è crisi e le banche ristrutturano e si fondono

(18 ottobre 2001) Almeno tre banche, e non delle più piccole, dovrebbero essere presto interessate da una fusione o da un'acquisizione, mentre una quarta, il colosso Unicredit, intende procedere a una profonda ristrutturazione. Riparte come un treno, insomma, il Risiko bancario che negli anni scorsi ha creato le grandi aggregazioni come Unicredit, IntesaBci e SanPaolo-Imi.

Paolo Brera

Solo pochi mesi fa il governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio si era dichiarato contrario a nuovi matrimoni fra banche: negli ultimi cinque anni, queste erano state le sue parole precise prima dell'estate, "è stata promossa e realizzata la più significativa ristrutturazione bancaria dopo quella attuata negli Anni Trenta. Ora è necessaria una fase di consolidamento e di razionalizzazione delle nuove aggregazioni". Oggi non lo ripeterebbe più, e il motivo sono i tempi difficili che sta attraversando l'intero settore del credito. Fra riduzione dell'attività economica e taglio dei tassi d'interesse, infatti, le banche si aspettano ormai una bella batosta, e l'assumere maggiori dimensioni è quasi una garanzia di sopravvivenza.

In alternativa, si può intraprendere una ristrutturazione a fondo, come ha annunciato nei giorni scorsi Unicredit. La nuova articolazione del gruppo in tre segmenti (retail, corporate e private banking) mira a consolidare i punti di forza e a far leva sulla specializzazione dei business e sul radicamento nei mercati locali. Si tratta – spiegano al quartier generale della banca – "di una evoluzione del modello federale verso un modello di business multispecialistico con proiezione europea".

Delle tre aggregazioni in vista una deriva dalla forza, una dalla debolezza e l'ultima da una vera e propria crisi. La prima, imminente, è l'alleanza fra Banca Cardine (una banca sorta dall'aggregazione di diverse realtà locali e molto ben radicata nelle zone adriatiche) e la torinese SanPaolo-Imi, nel quale ha una partecipazione rilevante la famiglia Agnelli. L'istituto torinese starebbe per acquisire un'ulteriore quota di Cardine, tale da farlo arrivare appena al di sotto del fatidico 30 per cento che farebbe scattare l'obbligo di un'offerta pubblica su tutto il capitale.

L'urgenza matrimoniale della Banca di Roma scaturisce invece dalla sua debolezza. Banca di Roma è un'azienda inefficiente, pressoché monopolista in alcune zone del Centro Italia ma quasi assente altrove. Negli anni passati ha dovuto a più riprese cedere gruppi di sportelli per far cassa. Ironicamente, uno degli acquirenti è stata la banca di cui adesso si fa con più insistenza il nome come possibile partner, l'Antonveneta.

Dinamica, redditizia, l'azienda veneta sarebbe un ottimo compagno di strada per Banca di Roma, e per un accordo fra le due, secondo quanto scrive Affari Italiani, starebbe premendo l'olandese Abn-Amro, azionista di entrambe. Da altre parti viene fatto invece il nome della Popolare di Novara, l'eterna signorina che la Banca d'Italia da tempo insiste che si accasi ma che, come Turandot, respinge sdegnosa tutti i corteggiatori.

L'ultima aggregazione è quella di BiPop-Carire, oggi nel pieno di una bufera. Dopo aver fatto da pioniere nell'Internet banking e nel trading online, arrivando nel marzo 2000 a capitalizzare in Borsa più della Fiat, BiPop si è avviata a un declino che la scorsa settimana l'ha vista emettere il primo profit warning della storia italiana.

La banca ha perso molto per aver garantito ad alcuni grandi clienti rendimenti e conservazione del capitale sui loro investimenti. Caduta del titolo in Borsa, dimissioni del top manager e una causa – patrocinata dall'Adusbef – da parte degli altri clienti sono state le conseguenze di questa crisi. Ora la Fondazione Manodori, che è l'azionista più importante, ha ottenuto che venisse preparato un nuovo piano industriale, con la rinuncia al modello di "banca finanziaria" che è alla radice dei problemi, e che ci si mettesse alla ricerca di un partner.

Questo sarà probabilmente una banca regionale (Antonveneta, Lodi, o la Banca Lombarda di Brescia, che in passato ha risentito pesantemente della concorrenza di BiPop). A meno che il dossier, seguito da vicino da Bankitalia, non finisca sulla scrivania di uno dei gruppi (Montepaschi, o ancora Banca di Roma) interessati a crescere al Nord.


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Per BiPop-Carire una lunga discesa dall'euforia del Web

(11 ottobre 2001) Che succede alla BiPop Carire, una delle banche leader in Italia nell'Internet banking e nel trading online? Da qualche settimana le sue azioni sono sottoposte a una specie di doccia scozzese, sulla spinta di voci selvagge. Ieri è toccato al rialzo, un rialzo di qualche punto percentuale, ma sarebbe potuto con altrettanta facilità essere ribasso. E oggi, chissà.

Paolo Brera

Secondo le indiscrezioni di mercato, sarebbero in corso trattative per raggiungere un nuovo equilibrio nella proprietà, con l'ingresso di nuovi soci. È stato fatto il nome della Hopa di Emilio Gnutti e della Banca Lombarda, che però hanno a più riprese smentito. Contro di loro, o almeno in funzione preventiva, si sarebbe mossa la Fondazione Manodori, che detiene quasi il 13 per cento del capitale di Bipop, per costituire un patto di sindacato e rendere più stabile l'azionariato. Oltre alle attenzioni della Hopa, nei giorni scorsi è emerso anche un possibile interesse del Montepaschi, che è una delle maggiori banche italiane ma non una delle più dinamiche. Il Credit Suisse First Boston, adviser della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, ha studiato per Mps sei ipotesi di aggregazioni: fra queste appunto Bipop.

La posta in gioco non è affatto piccola. BiPop è nata nel 1983 dalla fusione di due banche minori del Bresciano, ma da quell'anno in poi si è messa a correre come un treno, aggregando diverse realtà del Nord Italia e assumendo perciò il nome completo di BiPop Carire. Dal 1993, il gruppo è quotato in Borsa. Il vero salto di qualità è venuto nel 1999, quando BiPop ha lanciato Fineco Online, un servizio di trading via Internet che si è rapidamente affiancato al leader del settore, Directa, arrivando a 250.000 abbonati. Una campagna acquisti all'estero ha portato entro la sfera di BiPop realtà come la banca online austro-tedesca Entrium, la spagnola Safei e la Inferentia, una grande società di consulenza sulla Rete. Nel marzo 2000, nel pieno della "febbre del Web", il titolo era arrivato a quotare 12,6 euro. Oggi oscilla fra 2,2 e 2,3, con un'alta volatilità.

Qualcosa dunque non va per il verso giusto. Nel lungo termine, il rating di Standard & Poor's è alto, una tonda A, e quello di Moody's A3. Però S&P vede un outlook negativo. E a ben vedere, qualcosa che non funziona proprio benissimo c'è: la rete dei promotori, Azimut. Si sa da un pezzo che la banca intende cederla, perché non la giudica strategica, ma ogni successivo giro di trattative vede, a quando trapela, un prezzo un po' più basso. Si era parlato, ancora dieci giorni fa, di un miliardo e passa di euro. Le ultime valutazioni sono per 500-600 milioni. E si deve alla situazione di Azimut, probabilmente, il distacco completo da BiPop dell'ex Supremo Bruno Sonzogni, che conservava la delega per la rete dei promotori.

In più Bipop ha dovuto fare i conti con le indiscrezioni riportate di recente dal Sole 24 Ore, relative a svalutazioni del portafoglio crediti e minusvalenze legate a un buy back, che potrebbero avere un forte impatto sui conti del terzo trimestre. A settembre Bipop aveva rivisto il risultato semestrale a 56 milioni di euro di utile netto, da 85 milioni del preliminare, a causa di nuovi accantonamenti per rettifiche sui crediti, e aveva motivato la decisione con il peggioramento delle condizioni economiche e di mercato. Da allora, il mercato non è certo migliorato, e BiPop ha dovuto fare un'altra mezza ammissione riguardo a ulteriori svalutazioni allo studio.

Nel panorama generale, tuttavia, l'azienda di credito bresciano-reggiana non è affatto messa male. Buona parte dei suoi guai sembrano essere il puro e semplice risultato della caduta della precedente euforia da Web. A quei livelli era impossibile restare. A quelli di oggi, non dovrebbe essere difficile. E in caso di fusione in un gruppo più grande, vedremo l'azione salire alle stelle.


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Pirelli contro Ubs per l'aumento di capitale

(8 ottobre 2001) La Pirelli vuole aumentare il capitale della nuova controllata Olivetti ma la il colosso bancario svizzero Ubs, che ne è a sua volta azionista con poco più dell'un per cento, ha già dichiarato che nell'assemblea di Ivrea di sabato 13 voterà contro, perché il nuovo leader non ha dato abbastanza particolari su come intende impiegare i mezzi. Nel frattempo la stampa estera ipotizza che il piano di Tronchetti Provera miri a aumentare il controllo su Olivetti, più che a migliorare i conti della holding del gruppo Telecom. Insomma, si preannuncia una bella battaglia. E intanto in Borsa il titolo, sballottato dalle notizie ormai quotidiane, va su e giù come una nave in tempesta.

Paolo Brera

Ubs aveva aperto il fuoco già la settimana scorsa, e Tronchetti Provera aveva cercato di rispondere: poiché le perplessità della banca erano collegate all'entità dell'aumento di capitale richiesto, 17 miliardi di euro, il presidente di Olivetti aveva spiegato che la richiesta di delega era stata fatta per quella cifra solo per poter intervenire più rapidamente in futuro, ma in realtà l'aumento sarebbe stato di soli 4 miliardi di euro, giudicati sufficienti. Questa precisazione non è bastata a Ubs, che ha confermato la sua posizione.

Il meccanismo dell'aumento di capitale si presta in effetti a molte interpretazioni anche, diciamo così, maligne. La newco Olimpia (60 per cento Pirelli, 20 per cento gruppo Benetton, 10 per cento ciascuno IntesaBci e Unicredito) ha rilevato finora il 27 per cento di Olivetti, mentre la quota che per legge fa scattare l'obbligo di offerta pubblica per l'intera società è del 30 per cento. Ma come si sa l'Italia, patria del diritto, è anche patria del rovescio. In questo caso, se la quota viene superata per effetto di un aumento di capitale, in molti casi l'obbligo di Opa non si applica. La Pirelli e i suoi partner, lanciando l'aumento, vorrebbero cioè rafforzare la loro quota di maggioranza relativa e abbassare il prezzo di carico delle azioni (un euro contro i 4,17 pagati la scorsa estate) senza dover sborsare altro che i soldi dell'aumento, alla faccia degli azionisti di minoranza.

Malignità per malignità, alcuni fanno anche notare che l'aumento consisterà non solo di azioni, ma anche di obbligazioni al 3-4 per cento, convertibili in azioni Olivetti in 8-10 anni. E proprio questa potrebbe essere la via per far entrare in Olivetti qualche gruppo esterno, magari straniero, senza dover fare i conti né con reazioni ostili né con un'Opa, visto che le obbligazioni, come direbbe La Palice, non sono azioni e dunque per le Opa non contano. Più avanti, in capo a qualche anno, quando le norme fossero diverse, oppure ci fossero più soldi per un'eventuale Opa, le obbligazioni potrebbero essere debitamente convertite e buona notte al secchio.

Tutte queste sono sì speculazioni, ma fondate sui fatti quali vengono presentati dai responsabili. Cruciale diventa a questo punto il piano industriale, secondo cui tutte le attività non facenti parte del core business saranno cedute e l'attività si concentrerà su due soli mercati, l'Italia e l'America Latina. Fra queste cessioni e l'aumento di capitale si dovrebbe riuscire a ridurre l'indebitamento del gruppo Olivetti a proporzioni più ragionevoli (già oggi, del resto, il gruppo è molto meno inguaiato della quasi totalità delle aziende europee di telecomunicazioni).

L'opposizione di Ubs difficilmente potrà determinare l'abbandono del progetto, perché il mondo creditizio italiano sembra schierato con una certa compattezza dietro Tronchetti Provera, grazie al suo altissimo prestigio di risanatore della Pirelli. Fonti finanziarie confermano che dovrebbero partecipare al collocamento IntesaBci, Unicredito, San Paolo Imi, Mediobanca, Bnl e Mps e forse anche altre banche.


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La Bce resta immobile, come Kagemusha

(4 ottobre 2001) Anche la Banca d'Inghilterra, dunque, si è risolta ad allinearsi alla Fed e ad abbassare il tasso di riferimento di altri 25 punti base, al 4,5 per cento. È il sesto taglio dal'inizio dell'anno e segue di due settimane quello adottato all'indomani dell'attentato alle Torri Gemelle. La Fed, per parte sua, nel 2001 è intervenuta nove volte. Sarebbe bello se anche la Banca Centrale Europea avesse fatto altrettanto. Invece, come al solito, non si è mossa.

Paolo Brera

Il tasso di riferimento è in sostanza il prezzo che le banche devono pagare quando chiedono soldi alla Banca Centrale. Meno pagano le banche e migliori sono le condizioni che possono a loro volta praticare ai clienti, il che invoglia imprenditori e consumatori a spendere e dunque fa crescere l'intera economia. La manovra su questo tasso è il principale strumento di politica monetaria a disposizione delle banche centrali.

La Fed non ha esitato a usarlo. Nel corso di quest'anno ha abbassato il tasso sui Fed Funds a più riprese, portandolo al 2,5 per cento, come non si vedeva dal 1962. Nello stesso periodo, invece, la Bce è intervenuta solo tre volte, per un totale di 1,25 punti di ribasso, sebbene anche l'economia europea avesse bisogno di un po' di seltz.

Noi europei siamo stati sfortunati. Abbiamo creato la nostra valuta comune proprio alla vigilia di importanti mutamenti a livello planetario, e ne abbiamo plasmato le istituzioni con lo sguardo fisso nel passato. Abbiamo un Patto di stabilità pensato dai nostri partner per impedire all'Italia di creare inflazione a suon di deficit pubblici, ma in realtà in questo campo noi siamo ormai uno dei Paesi più saggi. Oggi che il problema dell'Europa e del mondo è rilanciare la crescita, il Patto è diventato una camicia di forza.

Ancora più scarognati siamo stati con la Bce. Qui, per capire, bisogna ricorrere ai miti letterari. Primo mito, Kagemusha, l'Ombra del Guerriero, eroe di un film di Kurosawa. Il protagonista assomiglia come una goccia d'acqua a un bellicoso feudatario, che muore. Per evitare alle truppe lo sconforto di sapersi senza guida, il sosia viene chiamato ad impersonarlo. Va tutto bene finché può star zitto. Ma durante una certa battaglia è costretto a dire qualcosa. Il sosia sa solo che il suo alter ego è conosciuto per essere una roccia, e quindi ordina "Non muoversi!" L'esercito sta fermo e incrollabile e il nemico, intimorito dal suo prestigio, si ritira. Ecco, la Bce è un po' come Kagemusha: il governatore Wim Duisenberg si ispira alla Bundesbank, celebre per l'indipendenza di giudizio e la fermezza con cui perseguiva la stabilità. Sui tassi bisogna agire poco e mai cedendo a pressioni esterne. Sicché Francoforte, alle sempre più pressanti richieste di agire, oppone sempre il silenzio e l'immobilità.

Di chi è la colpa? Purtroppo, è nostra. Agli albori del Sistema Monetario Europeo fu stabilito che la futura Banca Centrale dovesse essere del tutto indipendente e tendere per statuto a un solo obiettivo: la stabilità dei prezzi, in genere definita come un tasso d'inflazione sotto il 2 per cento. Solo questo fu chiesto e ad oggi si chiede alla Bce di fare, e solo questo essa fa. Insomma, come nel mito di Frankenstein, abbiamo creato un mostro, e ora dobbiamo patirne le conseguenze. Ma che un nuovo Trattato e una diversa Banca Centrale siano del tutto impossibili, questo non riusciranno mai a farcelo credere.


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Condono al denaro nero, ma non a quello sporco!

(22 settembre 2001) Giulio Tremonti, pur non avendolo posto tra le priorità dei famosi "primi cento giorni", sembra aver impegnato i principali sforzi del suo ministero dell'economia nel tentativo di far emergere il cosiddetto sommerso, visto che ha già proposto ai contribuenti italiani due – chiamiamole eufemisticamente così – "sanatorie".

Nicola Sardi

Uno dei primi suoi interventi, infatti, è stato quello per far emergere, a basso costo per il passato, il lavoro in nero; ora, non soddisfatto, ottiene un ulteriore provvedimento di condono anche per il denaro illegalmente esportato all'estero.

Quello che immediatamente fa più sorridere è rendersi conto di come la pulizia del denaro capitalizzato all'estero in violazione delle leggi italiane risulti possibile solo per quello in nero, ma non per quello sporco, frutto cioè di attività illecite o criminose. Viene così ufficializzata nel nostro ordinamento giuridico la distinzione tra i reati commessi dai colletti bianchi, cioè quelli in solo dispregio dei divieti fiscali o valutari, rispetto a quelli commessi dalla delinquenza comune: i primi possono essere perdonati, con il pagamento di una tassa da condono del 2,5 per cento, se dichiarati dal 1° novembre 2001 al 28 febbraio 2002, mentre i secondi restano al palo!

Non crediamo, però, che questa sottile distinzione potrà facilmente essere esibita: infatti, la legge dispone che l'interessato, che potrà essere solo una persona fisica, per beneficiare del condono, dovrà dimostrare la provenienza lecita dei fondi che vuole far rimpatriare, o comunque continuare a detenere all'estero. Quale contropartita di questa probatio diabolica, oltre naturalmente alla cancellazione dei reati fiscali (esclusi i delitti commessi con frode), o valutari e delle sanzioni amministrative che ne sarebbero conseguite, lo Stato assicura la riservatezza delle informazioni ricevute.

Ma è qui che casca l'asino. È evidente che tutti i capitali all'estero sono illegali inizialmente quanto meno per violazione di leggi fiscali e valutarie: ma come si potrà dimostrare che questi fondi dopo non sono stati utilizzati per commettere altri reati, magari compreso il riciclaggio?

E se anche confidassimo nella possibilità di dimostrarlo, si dovrebbe comunque consegnare la documentazione bancaria che evidenzia tutti i movimenti effettuati, o, meglio, che i capitali, di fatto, non sono stati movimentati. E, infine, confidare sulla parola del legislatore, che impedirà sia al fisco che alle procure della repubblica qualsiasi indagine sui dati forniti dai dichiarati delinquenti solo dai colletti bianchi?

La risposta è affidata allo "scudo fiscale" che gli intermediari, cioè soprattutto le banche e gli uffici postali, vorranno o potranno opporre alle pressanti richieste di chi per legge indaga sui contribuenti italiani.


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Tronchetti Provera ci prova ma il mercato rilutta

(6 settembre 2001) Quale intento poteva avere Tronchetti Provera nello scaraventare su un mercato in precipitosa caduta come quello di Piazza degli Affari un colossale aumento di capitale che, se realizzato per intero, raddoppierebbe le dimensioni di Olivetti? Non è dato saperlo, anche se appunto sulle intenzioni del Grande Risanatore d'Italia, colui che dopo aver tirato su dall'abisso la Pirelli è entrato nel primo gruppo tlc italiano sventolando la nobile bandiera della "creazione di valore" si è scatenata una ridda di ipotesi. Per ora, la risposta della Borsa è stata netta: il mercato non ha nessuna voglia di aumenti di capitale, e nelle telecomunicazioni poi meno che meno.

Paolo Brera

Tutti i titoli in qualche modo collegati al gruppo Olimpia infatti hanno dovuto soffrire non poco, nella settimana dell'annuncio, tranne l'azione Benetton che è rimasta quasi serenissima. Pirelli, Olivetti, Telecom Italia, perfino Tim che pure ha presentato una buona semestrale: tutti travolti da un'ondata di vendite. Non ha certo aiutato il fatto che in pendenza del verdetto del commissario europeo per la concorrenza Olivetti debba tacere sui suoi piani industriali, i soli che potrebbero giustificare una richiesta di soldi al mercato. Ma non è di sicuro tutto lì.

Due o tre cifre. La richiesta del consiglio di amministrazione della Olivetti è di una delega per emettere, nei prossimi cinque anni, azioni per 7 miliardi di euro di nominale, e obbligazioni, anche convertibili, fino a 10 miliardi. In tutto la sciocchezzuola di 17 miliardi di euro. Insieme alle vecchie deleghe per aumenti non ancora utilizzate, ce ne sarebbe abbastanza per rimborsare l'intero debito della società. Sul Wall Street Journal Hugo Dixon, che onore, ha scritto che questa speranza non esiste, e che la Pirelli non sembra avere nessuna idea per ridurre il debito della Olivetti. "Quando Pirelli ha acquisito il controllo di Olivetti", ha scritto Dixon, "si è detto che era finanziariamente molto più solida di Roberto Colaninno. Questo è vero. Ma il panorama esterno si è rapidamente deteriorato. Di conseguenza, ridurre l'indebitamento potrebbe essere qualcosa di simile ad un incubo".

A parte le esagerazioni, il problema è un grosso problema di comunicazione. Olivetti torna a chiedere soldi al mercato: tanti, forse troppi, certamente troppo presto: l’ultima volta era stato appena sei mesi fa, sia pure prima che entrasse Pirelli, per quasi 3 miliardi di euro. Questa richiesta cade in un mercato già di suo in preda allo sconforto – il Mibtel ha addirittura perforato il livello psicologico di 23.000, sotto il quale quei cialtroni degli analisti tecnici dicono che non c'è più nessuna linea di supporto – ed è ovvio che faccia un bel tonfo. E qualcuno maligna: non sarà che Tronchetti Provera, sfruttando un certo ramingo comma della legge sulle offerte pubbliche di acquisto, vuole salire oltre il 30 per cento di Olivetti senza l'obbligo di Opa sottoscrivendo la parte rimasta inoptata dell'aumento di capitale, così come stabilisce la legge? O non sarà magari che si vuole far spazio a un socio esterno, rendendogli più facile l'ingresso col deprimere i corsi della Olivetti?

La seconda di queste due ipotesi sembra francamente troppo machiavellica, ma sulla prima piacerebbe tanto essere rassicurati. Il mercato finanziario italiano ha visto negli ultimi mesi due takeover senza nessun vantaggio per gli azionisti di minoranza, e il secondo, nonostante l'indubbia personalità del Grande Risanatore, ha visto un aggravamento della congerie di scatole cinesi che controlla la prima azienda tlc del nostro Paese. Su un mercato moderno si deve stare in modo moderno. E un gruppo di telecomunicazioni non deve avere difficoltà a comunicare.


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e.Biscom, chi va piano andrà (si spera) anche lontano

 

(23 luglio 2001) "La crescita è molto lenta", ha detto l’analista di una grande Sim milanese, interrogato dal Wall Street Journal: "il fatturato impiegherà anni ad aumentare. Ciò è dovuto al fatto che l’azienda opera in un settore di nicchia, quindi con visibilità limitata, ed è legata allo sviluppo di Internet da una parte, e al cablaggio delle città dall’altra". In questa frase è riassunta la speranza di e.Biscom e, se vogliamo, anche il dramma di altri operatori del settore, come e.Planet, ai quali mancava la falcata del maratoneta. I danee, insomma.

Paolo Brera

E.Biscom i danee ce li ha. Grazie a un timing perfetto, si è presentata sul mercato come l'asso di denari sul tavolo di scopadassi e ha raccolto una barca di soldi. Oggi la posizione liquida è di 1,2 miliardi, perché 400 milioni sono stati spesi. Spesi bene: cioè per costruire una rete di fibre ottiche proprietaria, alternativa a quella di Telecom e senza altri rivali che l'ex monopolista. Questa rete sta continuando a crescere, grazie alla politica di alleanze con le municipalizzate delle maggiori città e all'acquisizione, in Germania, dell'amburghese Hansanet, e produce clienti da multiutility. E.Biscom infatti offre collegamenti a banda larga, una rete per il commercio elettronico B2B, una per il B2C e un ampio ventaglio di contenuti, dal quotidiano online Il Nuovo al Video on Demand di Stream. I collegamenti per telefonia e Internet offrono un flusso costante di cassa, attraverso il canone, a un costo marginale vicino allo zero. E tutto diventa quindi una questione di accumulazione: quando la clientela raggiungerà il 15-20 per cento del mercato potenziale, e.Biscom macinerà i profitti come un mulino le farine doppio zero.

Basta crederci. Chi scrive ci crede, però bisogna dire che la Borsa di Milano ha espresso invece qualche dubbietto, nel suo solito modo brutale. E.Biscom è nata nel settembre 1999 ed è quotata sul Nuovo Mercato dal 30 marzo 2000. L’entusiasmo con il quale il progetto industriale della società venne a quel tempo accolto era anche in parte il frutto della bolla speculativa che non si era ancora sgonfiata: questo portò il titolo a superare di più del 90 per cento il prezzo di collocamento (160). Oggi, rispetto a quel prezzo, il valore è ridotto a poco più di un terzo, ma nonostante ciò la società continua a trattare a multipli più elevati rispetto ai concorrenti, segno che il mercato italiano non è poi così scimunito e sa distinguere il buono dal meno buono e dal lasciampèrdere.

Il piano strategico e la situazione finanziaria della società, unite alla qualità del management, sono credenziali positive, ma non si può scordare, come rileva Donatella Principe del servizio Ricerche della Popolare di Vicenza, che l’attuale ciclo di investimenti è destinato a drenare risorse ancora per diversi anni, e la possibilità di ripresa delle quotazioni resta ancorata al raggiungimento di volta in volta degli obiettivi intermedi. Né va trascurata la componente settoriale, che vede in questo momento i concorrenti (sia diretti che indiretti) soggetti alle asperità di una fase negativa la cui soluzione sembra spostarsi sempre più in là nel tempo.

Alla fine del primo trimestre 2001 i clienti cablati in Italia erano 8.500, quelli in Germania 17.000. Nei primi tre mesi dell'anno il gruppo ha registrato un fatturato di 27,2 milioni ( 1,35 milioni nello stesso periodo del 2000 quando è cominciata l'attività). Il margine operativo lordo è risultato negativo per 26,6 milioni. Per la fine di quest'anno, dice Carlo Micheli, responsabile della pianificazione delle strategie del gruppo e.Biscom, l’azienda punta a "quadruplicare il fatturato del 2000, che si era attestato a 80 miliardi di lire, poco più di 1 milioni. Il break-even è previsto per il 2003". Le proiezioni di Micheli trovano conferma in un rapporto di Deutsche Bank sulle società italiane di telecomunicazione: l’istituto tedesco prevede per e.Biscom un fatturato pari per il 2001 a 150 milioni, e per il 2009 a 3,48 miliardi.

Carlo Micheli (da non confondere con Francesco Micheli, uno dei pricnipali azionisti del gruppo) ha detto in un'intervista a Wall Street Italia che per "realizzare il nostro progetto industriale abbiamo bisogno di circa sei anni, e non è un caso che il management azionista ha deciso di rispettare un lock-up, cioè l’impegno a non vendere, proprio di sei anni". Fra le realtà della New Economy, e.Biscom sembra avere i piedi piantati per terra più della maggioranza delle altre. E se non offre grandi ritorni immediati, garantisce però una crescita ben ancorata nello sviluppo del mercato e si candida quindi a essere una futura blue chip.


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Mediobanca, Maranghi sceglie la difesa flessibile. E lascia Montedison

 

(22 luglio 2001) Mediobanca ha dunque scelto la strategia della difesa flessibile: cioè ha rinunciato a difendere l'indifendibile – il suo dominio su Montedison quando altri ne possiede già il 52 per cento – per concentrarsi sulla protezione di ciò che ancora non è perduto. Il prezzo dell'Opa Italenergia su Montedison è stato così aumentato a 3,16 euro e tutto il gruppo degli alleati di Mediobanca aderirà all'offerta. E allora fiocco azzurro (azzurro elettrico, s'intende): è nato il secondo produttore italiano di elettricità.

Paolo Brera

Vittorio Maranghi, patron di Mediobanca, ha gettato la spugna nel momento in cui una decisione dell'Unione Europea ha dichiarato necessario il placet dell'Antitrust di Bruxelles per l'assunzione del controllo di Montedison. Questa decisione dava in teoria a Maranghi la possibilità di scatenare la sua "battaglia delle Ardenne", con scarse ma non nulle possibilità di rovesciare la situazione e assai più concrete chances di far pagar cara la vittoria all'avversario. Questo minuscolo sovrappiù di potere contrattuale è ciò che ha indotto il fronte opposto ad accordarsi, aumentando ancora di qualche sparuto tick l'offerta.

Perché Mediobanca ha ceduto? Il motivo principale è che qualsiasi battaglia l'avrebbe danneggiata in un asset vitale per il mantenimento del suo impero, il suo prestigio. Il quale certo è già bello coperto di ecchimosi anche così, ma sarebbe stato addirittura trascinato nel fango dalla visione di una banca d'affari che – a suon di cavilli – si fosse opposta a che la maggioranza di una società esercitasse i suoi diritti. Con l'aggravante, serissima, che di questa maggioranza fanno parte anche alcuni dei suoi maggiori azionisti. Non ci sarebbe voluto di più per fare dell'istituto di piazzetta Cuccia un "primus", non "inter pares" ma "inter… paria". Tutti infatti ci avrebebro ensato su dodici volte prima di associarsi a un partner così rissoso e poco rispettoso della correttezza.

In secondo luogo, cedendo ora il suo 14,53 per cento Mediobanca incassa 830 milioni di euro, di cui 430 di plusvalenza. Sono bei soldi e verranno buoni come "munizioni" finanziarie in altre parti dell'impero oggi assediato dai barbari. Sopra tutto nelle Generali, dove spira aria cattiva per piazzetta Cuccia. Poi in Hdp, dove la tregua durerà solo fino a dicembre, dopodiché i Romiti padre e figlio verranno indotti a ritirarsi in qualche romitaggio fuori mano. Una sorte ben diversa rispetto a quella di Enrico Bondi, amministratore delegato di Montedison, che rimane al timone rinverdendo la sua passata caratteristica di "uomo Fiat" dopo esser stato, sembra, l'artefice dell'armistizio.

E adesso? Giratela come volete, Maranghi ha perso una battaglia decisiva, e adesso in Mediobanca è, come ha detto Giuseppe Turani, una sorta di sopravvissuto: "Di fatto", scrive Turani su Repubblica, "ha perso il potere di radunare gli eserciti e di marciare contro qualcuno o in difesa esasperata di qualcun altro". Mediobanca stessa, secondo l'autorevole opinionista, non è più un potere autonomo. Questa e non altra conclusione era del resto inevitabile: infatti se Maranghi avesse preso la via delle Ardenne non avrebbe fatto altro che ritardare la sconfitta in questa battaglia, affrettando però quella nella più generale guerra che deve combattere. E avrebbe, per di più, bruciato le risorse che potranno forse permettere alla banca d'affari milanese di riqualificarsi in qualche altra direzione. Quale, non è dato oggi neppure di immaginare.

E la nuova Edison-Italenergia? Il consiglio d'amministrazione di Edison non ha modificato il suo atteggiamento: l'offerta (obbligatoria per legge come "offerta a cascata") è inadeguata. Poiché, una volta conquistata Montedison, a Italenergia di tirare fuori altri soldi per avere una quota maggiore di Edison certamente non gliene può fregare di meno, l'adamantinità del Cd'A si presta a più di una interpretazione. Vuol forse dire che Mediobanca non venderà la sua quota, e magari entrerà in un nuovo patto di sindacato? Allo stato, mancano informazioni.

Nei comunicati non si parla neppure della cessione di Fondiaria a Sai, che si è attirata gli strali dell'Adusbef: se la Consob non imporrà l'Opa per l'evidente azione di concerto fra Montedison e Sai, ha detto l'Associazione, i piccoli azionisti saranno danneggiati e beffati. Già, ma quelli grossi che compongono Italenergia? Quelli forse lasceranno che l'operazione vada in porto, come parte dell'accordo con Mediobanca.

Infine, un risultato immediato della conquista di Montedison da parte di Italenergia è il ritiro di Edigen (Edison) dalla gara per Italpower, la prima delle tre Genco messe in vendita dall'Enel, che è andata agli spagnoli di Endesa. Insomma, parafrasando il detto italiano d'altri e più travagliati tempi, "Viva la Francia, viva la Spagna, purché la luce si accenda".


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La prossima battaglia di Borsa sarà per Mediobanca

(13 luglio 2001) Qual è dunque la prossima mossa della vicenda Mediobanca? Secondo voci che circolavano con una certa insistenza a Milano all'inizio del mese di luglio, l'amministratore delegato Vittorio Maranghi avrebbe cercato di organizzare una linea di difesa con il sostegno di UniCredit. A smentirle è arrivata puntuale una nota della banca di piazza Cordusio: "È destituita di qualsiasi fondamento l'anticipazione da parte delle agenzie di stampa di un progetto di Ops UniCredit su Mediobanca. UniCredit considera inaccettabile la diffusione, senza adeguata verifica, di notizie così dettagliate da apparire veritiere e così rilevanti per i mercati". Ma è significativo che il rumor mirasse così in alto. E che qualcosa si stia preparando è certo, perché non può essere oscura a Maranghi la debolezza della sua posizione e, invero, di quella di Mediobanca.

Paolo Brera

Mediobanca sanguina, ha addirittura scritto il Wall Street Journal, e qualcuno potrebbe approfittarne per colpire duro e arrivare a Generali. La battaglia per Montedison ha aperto uno spiraglio nell'istituto di piazzetta Cuccia, e si fa sempre più reale la possibilità che un gruppo rivale possa entrare nel cuore della società. Oggi Mediobanca sembra più che altro il semplice involucro di ciò che fu in passato: è così vulnerabile da rischiare di essere essa stessa scalata.

Già, perché nella finanza italiana è finita un'epoca. Le grandi famiglie imprenditoriali di un tempo hanno molto meno potere e ad esse si sono affiancati nuovi imprenditori, come i Benetton, Soru e Del Vecchio, e gruppi esteri, che esprimono logiche diverse. Una volta, Mediobanca cuciva insieme i vari clan e trovava soluzioni acconce per tutti i loro problemi. Oggi clan e gruppi si affrontano e si scontrano e il mercato, in termini pecuniari, riesce ad incidere molto di più – anche attraverso intermediari che vent'anni fa non c'erano proprio, come i fondi d'investimento.

Le piccole quote che Mediobanca teneva disseminate in molte imprese avevano la funzione di benevoli osservatorii finché le cose andavano bene, e, al momento buono, di chiavi di volta per le architetture finanziarie dei vari salvataggi patrocinati da Enrico Cuccia. Le banche – tutte le principali erano in un modo o nell'altro legate a Mediobanca – non rifiutavano mai i fondi. Mediobanca, del resto, era un medico molto severo delle malattie aziendali: il paziente soffriva da cani ma – invariabilmente – guariva. Così la Pirelli, il gruppo Ligresti, la stessa Montedison.

L'azionariato di Mediobanca ha sempre avuto come nocciolo duro una coalizione di banche, alle quali si sono via via affiancate anche diverse imprese di altri settori. Negli ultimi dieci anni, con le privatizzazioni e le fusioni, la situazione si è evoluta con rapidità maggiore. Ma il mutamento più grosso è stato la morte di Cuccia. Nessuno degli azionisti osava fiatare contro di lui, anche se in teoria Cuccia era nominato proprio dagli azionisti (una pura formalità, ai tempi). Contro Maranghi si fiata senza problemi.

Sicché dentro il sindacato di controllo di Mediobanca sono emersi due gruppi: uno è ovviamente quello di Maranghi, l'altro fa capo alla Fiat e alle tre banche che si sono schierate con Italenergia per Montedison. Pochi mesi fa questi due gruppi avevano trovato un accordo interlocutorio. Già abbastanza fragile di suo fin dall'inizio, questo accordo è praticamente volato in pezzi con l'Opa EdF-Fiat su Montedison.

Di qui l'idea che Maranghi potesse rivolgersi a UniCredit perché la banca lanciasse un'Opa di dimensioni tali da creare un nucleo inattaccabile. UniCredit ha smentito, e del resto il vero scoglio è il governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio, il quale ha più volte ripetuto che nel sistema bancario Opa ostili non se ne devono fare. Quieta non movere, insomma. E visto che la Banca d'Italia non ha più nessuna incombenza riguardo alla gestione della moneta, Fazio si può ben permettere di concentrarsi sulla sorveglianza del sistema bancario.

Il numero uno di via Nazionale, di questi tempi, non pare troppo ben disposto nei confronti di Mediobanca, come ha dimostrato l'inedita astensione sulle nomine proposte da questa per i vertici di Generali. Se Fazio accettasse un'Opa su Mediobanca, dunque, sarebbe più facilmente un'Opa per scalzare Maranghi che per ribadirlo in arcione. È stato invece rinviato di sei mesi il regolamento di conti all'interno di Hdp – nella quale il terreno ormai scotta per i due Romiti, padre e figlio, che proprio piazzetta Cuccia ha messo ai posti di comando e che la Fiat, dal canto suo, vuole scartare per tornare a controllare il Corriere della sera. Il patto di sindacato è stato rinnovato (per evitare uno scontro aperto) ma è stata riconosciuta ai membri la facoltà di denunciarlo entro fine anno. Arrivederci a dicembre, dunque.


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Pace fatta per Montedison, il nuovo impero dell'energia

(13 luglio 2001) È finita la guerra fra Italia e Francia sull'elettricità: l'invasore, al secolo EdF, ha trasformato la sua quota nella newco Italenergia in un 2 per cento di capitale ordinario e un 16 di azioni privilegiate, che assegnano ai francesi un diritto di voto limitato alle assemblee straordinarie. Poiché la decisione fa di Italenergia una società formalmente "italiana" al 98 per cento, il ministro delle Attività produttive Antonio Marzano ha dato via libera al progetto di Opa su Montedison, imprimendo così il suggello politico alla nuova gestione di Montedison.

Paolo Brera

Nella nuova situazione infatti il decreto a suo tempo emanato dal governo di Roma per bloccare Edf non ha più alcuna rilevanza pratica. Lo ha chiaramente rilevato il sottosegretario alle Attività produttive (viceministro) Giovanni Dell'Elce parlando alla Camera, dove si stava discutendo la conversione in legge del decreto Edf. "Il decreto continuava ad avere la sua efficacia sulla quota di Edf in Italenergia e, infatti, ha prodotto un nuovo effetto: l'autosterilizzazione della partecipazione di Edf in Italenergia al 2 per cento decisa ieri dalla società. In questa nuova situazione non può avere un'applicazione concreta".

Nella stessa giornata del 13 il presidente di Edf, François Roussely, ha incontrato uno dei vice di Berlusconi, Gianni Letta, a Palazzo Chigi. A Letta Roussely ha detto che il nuovo polo energetico raggrumatosi in Italenergia punta a raggiungere una quota di mercato del 20 per cento nell'energia elettrica e del 10 per cento nel gas, rispetto a un potenziale attuale di circa metà. "Abbiamo parlato della maggioranza italiana di Italenergia e abbiamo messo fine a tutte le ambiguità su un progetto che è italiano": queste sono state le parole del presidente di EdF al termine dell'incontro.

Braghe calate o astuto raggiro gallico? Un po' di tutt'e due, forse. La levata di scudi in Italia era stata generale, maggioranza e opposizione unanimi nel condannare l'incursione dei francesi. EdF, che non aveva neppure l'appoggio del governo di Parigi, non poteva continuare a irritare il suo futuro mercato. La soluzione trovata salva capra e cavoli. Non c'è dubbio che la gestione di Italenergia toccherà ai francesi, perché né la Fiat né le banche né Zaleski hanno un decimo o un centesimo della loro esperienza nel settore. Non c'è dubbio che EdF sarà esaudita due nanosecondi dopo che avrà espresso la sua volontà di convertire le sue azioni privilegiate in ordinarie. Ma la foglia di fico resterà lì finché non sarà liberalizzato il mercato francese: a quel punto questo genere di cose non avrà più importanza, sarà nato, anche in questo settore, un mercato comune europeo dei capitali.

Mediobanca ha sicuramente perduto uno scontro, ma sul campo di battaglia non si è ancora sentita suonare la tromba della ritirata. L'assemblea Montedison è fissata per il 9 agosto, che era l'ultimo giorno utile per restare nella regolarità: non è chiaro, però, se a Maranghi l'aver guadagnato tempo in questo modo servirà a qualcosa oppure no.

All'assemblea ordinaria si troveranno di fronte tutte le dramatis personae di questo dramma: ci sarà Italenergia e ci sarà Mediobanca, entrambe pronte all'ultima battaglia, quella delle nomine. È ormai evidente, infatti, che l'assemblea toglierà di mezzo l'attuale cda presieduto da Luigi Lucchini, per la cui sostituzione circola già il nome di Franco Bernabè. Resta da capire come si potranno distribuire le poltrone della plancia di comando di Montedison senza scontentare nessuno dei nuovi patron della holding.

In circostanze simili, all'assemblea delle Generali, l'errore nel muoversi fu fatale proprio a Mediobanca, la quale si alienò le simpatie di alleati storici quali Banca di Roma e SanPaolo-Imi, oggi azionisti di Italenergia, imponendo Gianfranco Gutty sul trono del Leone di Trieste. La lezione, pare, è stata mandata a memoria da Fiat e compagni, che si apprestano a un'ondata di supernomine, innalzando fino a ventuno il numero degli amministratori della società (lo statuto Montedison lo prevede).

In quella occasione potrebbe esserci qualche forma di compromesso, o anche no. In un modo o nell'altro, Montedison ha cessato di essere contendibile. Abituiamoci a pensarla come perno di un impero energetico secondo, in Italia, solamente all'Enel.


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Alitalia vuole la mano di Air France

(10 luglio 2001) Quali sono le prospettive di Alitalia dopo l'accordo a tre con Air France e Delta Airlines? La prospettiva immediata è quella di cercare di recuperare efficienza, dopo anni di bilanci deboli. Ma quella a più lungo termine, secondo gli orientamenti attuali del consiglio di amministrazione, è addirittura la fusione con la compagnia aerea francese. La quale, pur non escludendo sviluppi, ha però gettato acqua sul fuoco parlando di uno scambio azionario molto limitato, praticamente solo simbolico.

Paolo Brera

Per ora Air France e Alitalia partono con una cooperazione commerciale della durata di dieci anni. L'intesa fra le due compagnie prevede in effetti anche la possibilità di scambi azionari, ma questi, stando al comunicato Alitalia, "saranno presi in esame solamente nel momento in cui si siano realizzate le condizioni che entrambe le compagnie e i loro rispettivi azionisti riterranno necessarie". Air France è stata più precisa e ancor meno incoraggiante: "Per suggellare sul lungo termine l'intesa con Alitalia, una quota di minoranza di qualche punto percentuale, l'1, il 2 o il 3 per cento ad esempio, potrebbe essere prevista nell'accordo finale", ha infatti dichiarato una portavoce della compagnia francese. Queste sono pure e semplici briciole. Non è esplicitamente richiamata, anche se non viene neppure esclusa, la possibilità di un vero e proprio merger, cioè della trasformazione delle due compagnie di bandiera in una sola società italo-francese.

Nella relazione tecnica presentata al consiglio di amministrazione dall'amministratore delegato della compagnia italiana, Francesco Mengozzi, si afferma però che l'alleanza "potrebbe eventualmente sfociare in una fusione completa". Quanto all'incrocio azionario, questo potrebbe essere realizzato, ha detto Mengozzi, attraverso un aumento di capitale di entrambe le compagnie, soggetto all'approvazione dei rispettivi azionisti – cioè degli Stati francese e italiano, che detengono la maggioranza del capitale.

Senza dubbio l'accordo assicura alla compagnia di bandiera italiana un posto in una delle grandi alleanze mondiali, SkyTeam. Nata nel giugno del 2000, è composta al momento da Air France, Delta, Aeroméxico, Korean Airlines e la ceca Csa; ai suoi clienti offre 7.091 voli giornalieri su 472 destinazioni in 112 Paesi; ha una flotta di 1.013 aerei e oltre 155.000 dipendenti; trasporta oltre 176 milioni di passeggeri l'anno. Secondo le stime di Alitalia, l'alleanza potrebbe produrre a regime benefici economici per 100 milioni di euro all'anno.

E va detto che ce n'è davvero bisogno. Alla fine del 2001 Alitalia avrà un indebitamento di 15,54 miliardi di euro. Questo, insieme all'elevata conflittualità che ha fatto perdere alla compagnia 31 milioni di euro per scioperi solo nel primo semestre dell'anno, è ciò che ha impedito una vera e propria fusione con Air France e Delta Air Lines: l'ha spiegato, in un'intervista al Corriere della Sera, Francesco Mengozzi, amministratore delegato di Alitalia. "Si trattava di un'operazione di piena integrazione che aveva grossi limiti e toccava nodi sensibili per ciascuna compagnia", ha detto Mengozzi. Alitalia ha precisato di avere allo studio un'ipotesi di ricapitalizzazione, nell'àmbito del nuovo piano industriale, senza però citare alcuna cifra.

L'impressione generale è dunque quella di una scarsa elaborazione, di una linea che continua a essere ciò che gli anglosassoni chiamano muddling through. Bisognerà aspettare qualche novità vera per capire se davvero nascerà la compagnia aerea italo-francese del Mediterraneo.


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Montedison a giochi fatti: vincitori e vinta

 

(4 luglio 2001) Ci sono per ora due evidenti vincitori e uno sconfitto certo nell'Opa Montedison. Come ha rivelato l'amministratore delegato della Fiat Paolo Cantarella, questa si può dire già finita perché la newco Italenergia, grazie ad alcuni accordi con azionisti della conglomerata milanese, detiene il 52,09 per cento del capitale e ha già chiesto la convocazione dell'assemblea per sostituire il consiglio di amministrazione. Lo sconfitto è ovviamente Mediobanca, per la quale si apre un periodo molto burrascoso da cui difficilmente potrà uscire senza rivedere il proprio ruolo nella finanza italiana e addirittura il proprio statuto. I due vincitori sono la Fiat e il finanziere franco-polacco-bresciano Roman Zaleski, che partecipa alla cordata attraverso la Carlo Tassara.

Paolo Brera

EdF, il colosso elettrico francese, ha dovuto ripiegare su una posizione meno ardita dopo la levata di scudi generale che c'è stata in Italia e le reprimende che si è presa dal governo francese. Reprimende discrete, fatte attraverso la solita "Radio Enarque" che collega tutti i big della classe dominante francese, ma pur sempre reprimende: giocarsi il rapporto con l'Italia, già di suo governata dallo stesso uomo cui Parigi a suo tempo ha sbattuto la porta in faccia quando aveva fatto capolino nella tv dell'Esagono, non era cosa.

EdF ha trovato una soluzione brillante alleandosi a Fiat, un'impresa che più italiana non si può. Giustamente il commentatore Boursier.com ha rilevato che si tratta di una copertura nei confronti dei politici di Roma, una foglia di fico per coprire l'entrata in forze nel mercato elettrico italiano del gruppo energetico più forte d'Europa che chez soi, in Francia, non lascia entrare nessuno. Fra qualche anno però persino la Francia sarà liberalizzata e per allora EdF è risoluta ad avere sviluppato la sua rete di interessi nel mondo.

Però questa foglia di fico è costata cara: circa 500 milioni di euro, che EdF ha dirottato sugli alleati Fiat e Zaleski attraverso il gioco della valutazione dei rispettivi apporti alla newco. I torinesi stanno effettuando l'operazione non solo senza impegnare grandi risorse, ma realizzando fin dall'inizio succose plusvalenze. "Il capital gain per Fiat dalla dismissione di Fenice (ceduta a Edf in cambio del 10 per cento di Montedison, ndr) e dalla valutazione degli altri asset conferiti (a Italenergia) è di circa 600 milioni di euro dopo le tasse", ha dichiarato Cantarella nel corso della conference call con gli analisti sull'Opa Montedison. Il capital gain proviene per tre quinti da Fenice e per il resto dalle altre attività. Niente male per una società che stava sperimentando qualche problema di mercato nel suo core business, e che si manifesta oggi come una futura conglomerata.

Fiat mira ad entrare nel settore energia per incrementare la quota di mercato che Edison detiene (pari a circa il 15 per cento) e che probabilmente crescerà grazie all'acquisto delle centrali Enel.

Il guadagno di Zaleski è, fatte le debite proporzioni, almeno altrettanto significativo. Un anno e mezzo fa il finanziere aveva un elefantiaco immobilizzo di capitale in Falck, dove – per il solito giochino targato Mediobanca che le azioni si pesano e non si contano – non contava proprio una mazza. Oggi è partner riconosciuto e apprezzato di grandi imprese europee, con un avvenire sicuro come intermediario su tutte le questioni in cui sono coinvolte le economie italiana e francese. Già, perché la vocazione di Montedison è lo spezzatino, e questo apre giochi in Italia, in Francia e in Spagna. Qui Fiat ha già fatto sapere di non voler effettuare un'Opa sulla società alimentare Koipe, della quale Montedison detiene oggi il 52,53 per cento ma dovrà, appunto per evitare l'obbligo di Opa, scendere prontamente al 50.

È ancora possibile che Maranghi voglia scatenare una sua "battaglia delle Ardenne" per rendere più tormentata la vittoria degli avversari, per esempio servendosi della propria minoranza di blocco per disputare la dismissione delle società-figlie di Eridania-BéghinSay, l'ex società alimentare del gruppo Montedison che si è fatta letteralmente in quattro per il mercato. Ma è poco probabile, perché un serio litigio non farebbe che accelerare la caduta della banca d'affari milanese (chi se la metterebbe più in casa, dopo?). Il copione più verisimile è che Italenergia venga fusa con Edison, Sondel e Italpower, che le altre partecipazioni vengano gradualmente cedute e che le tre banche alleate di EdF e Fiat, cioè SanPaolo-Imi, IntesaBci e Banca di Roma, finiscano col cedere le loro quote con laute plusvalenze, magari al momento in cui Italenergia sarà quotata in Borsa. E se mi date retta, non ci vorrà molto.


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Montedison, Mediobanca ha già perso

 

(2 luglio 2001) Non c'è il minimo dubbio che Fiat e Mediobanca alla fine si metteranno d'accordo. Maranghi ha fatto il viso dell'armi all'Opa di Italenergia su Montedison, ha ispirato due contromosse di grande peso (la cessione di Fondiaria e di Dieci), ma non gli conviene perpetuare situazioni di conflitto che non possono spostare i termini essenziali della situazione.

Paolo Brera

L'Opa, confermando le voci dei giorni scorsi, viene fatta attraverso la società Italenergia – con Fiat al 40 per cento circa, EdF al 18, le tre banche alleate SanPaolo-Imi, IntesaBci e Banca di Roma al 23 e Zaleski con il 20. L'Opa è obbligatoria dal momento in cui esiste un ente singolo o una coalizione che supera il 30 per cento di una società quotata, e qui si parla di oltre il 48. Obbligatoria è anche l'estensione dell'Opa alla controllata Edison. I prezzi, in base alla procedura dettata dalla legge italiana, sono di 2,82 euro per ogni azione Montedison e di 11,60 per ciascuna Edison. Che riesca o meno è indifferente, la maggioranza è comunque in mano a Italenergia. In questo senso, Vincenzo Maranghi ha già perso la partita.

La risposta di Maranghi è in apparenza bellicosa. Per cominciare, il consiglio d'amministrazione della conglomerata milanese ha deliberato di vendere alla Sai quasi tutta la quota Montedison della compagnia di assicurazione La Fondiaria, controllata congiuntamente a Mediobanca, mentre la quota in Dieci Srl (che controlla le cartiere Burgo) sarà ceduta al finanziere francese Vincent Bolloré. Le due operazioni comportano cospicue plusvalenze (400 e 27 milioni di euro rispettivamente): l'incasso complessivo si può stimare in circa 1.140 milioni di euro, che andranno a ridurre l'indebitamento della Montedison. Più precisamente piazzetta Bossi ha ceduto alla Sai il 29 per cento di Fondiaria (sul 32,45 per cento complessivamente posseduto) per un controvalore di almeno 1.059 milioni di euro, pari a circa 9,5 euro per azione; il resto viene da Dieci.

Si tratta peraltro di mosse ambigue. Da una parte le cessioni migliorano i conti di Montedison e rendono quindi meno vantaggioso aderire all'Opa, dall'altra sottraggono alla coalizione EdF-Fiat asset che non sono fondamentali per il progetto complessivo di questa. Come dire: non mettete in discussione Fondiaria e io Mediobanca non farò minoranza di blocco entro Montedison.

Può riuscire. "L'interesse di Italenergia in Montedison", si legge nel comunicato della newco, "è principalmente focalizzato sulle attività di produzione di energia. Verrà successivamente avviato un esame strategico delle migliori opportunità per aumentare il valore degli altri asset della società". E ancora: "Obiettivo dell'operazione è favorire la crescita dell'attività elettrica ed energetica di Montedison sia attraverso lo sviluppo di nuovi siti sia attraverso l'apporto di capacità esistenti (quelle delle Fiat e di EdF, conferite alla nuova società, NdR). Questo rafforzerà la posizione del secondo operatore elettrico nazionale con il target di raggiungere una capacità installata di almeno 14.000 MW". Avete letto la parola "Fondiaria" nelle righe che precedono? No? E allora vuol dire che lo spazio per un accordo c'è.

Messa insieme a Sai Fondiaria diventa il secondo gruppo assicurativo italiano, dopo le Generali. Il destino delle quattro società dello spezzatino Eridania-BéghinSay è già scritto: saranno cedute al miglior offerente. Per altre partecipazioni Montedison le cose sono meno chiare. Il governo di Roma si è dichiarato neutrale (decisiva essendo ai suoi occhi la maggioranza italiana in Italenergia), EdF si rende garante del progetto industriale. Viviamo dunque nel migliore dei mondi possibili. Tranne forse per Mediobanca, che salva sì qualcosa ma subisce una decisiva perdita di immagine.

Fondiaria è importante per l'istituto di piazzetta Cuccia perché possiede il 2 per cento tanto in Generali quanto nella stessa Mediobanca, ed è quindi un tassello importante negli assetti di controllo di entrambe. Ma se anche la battaglia di contenimento di Fondiaria sarà vinta, la guerra di Maranghi è avviata a sicura sconfitta. La banca milanese era un tempo la regina della finanza italiana, governava realtà enormi con partecipazioni lillipuziane e l'accordo delle grandi famiglie del capitalismo nazionale. Oggi le grandi famiglie contano molto meno, non riescono più a colludere come ai bei tempi, e le coalizioni basate su molte quote di piccola entità sono sempre in tensione. Le azioni tendono a non essere più pesate, ma contate.

Il caso Montedison mostra che una dinastia imprenditoriale presente con una quota in Mediobanca può impostare un'iniziativa finanziaria di importanza primordiale non solo senza, ma anche contro la banca. E vincere la partita.

Sarebbe stupido pensare che la cosa possa finire qui. Ci sono altre partite possibili. E una, quella per la Holding di Partecipazioni, vede gli stessi contendenti: gli Agnelli da una parte, piazzetta Cuccia dall'altra. Non è un mistero come a Torino siano insoddisfatti della gestione Romiti e mirino a riprendere sotto le ali il Corriere della Sera. Forse aspetteranno la fine della stagione balneare per dare il via all'attacco, ma forse anche no. Poi sarà il turno delle Generali. Mediobanca, impacciata da una norma statutaria che non le consente di superare il 15 per cento del capitale in alcuna partecipata, deve basare la sua difesa sul prestigio e sulla sua ragnatela di influenze. Il prestigio ha preso un duro colpo, l'influenza si riduce ad ogni sconfitta.

Alla fine delle battaglie che oggi si preannunciano ci sarà, è inevitabile, l'assalto allo stesso ridotto Mediobanca. Non si può sapere oggi chi lo guiderà. Ma è difficile che della costruzione creata in sessant'anni da Cuccia possa rimanere, dopo l'assalto, molto più del nome.


 

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