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"Lo scrittore leggero delle nostre domeniche"

La Repubblica 20 -21 Dicembre 1992

IL CAMPIONATO Mondiale di Calcio del 1954 - il primo che la televisione abbia seguito, si svolgeva in Svizzera -doveva vincerlo l'Ungheria. Doveva. Era una squadra formidabile. Bozsick, Koksis, Hidegkuti, Puskas. A Budapest, aveva strapazzato l'Inghilterra con un clamoroso 7-1. Nessuno s'era mai permesso tanto, prima.

Aveva strapazzato anche noialtri a Roma. Ma aveva tenuto la mano leggera. Si festeggiava l'inaugurazione dello Stadio Olimpico: si poteva maramaldeggiare con i padroni di casa? Quindi si limitarono a darci tre gol soltanto. A zero, manco a dirlo.

Una squadra formidabile. Avevano fatto vedere mirabilia anche in Svizzera, Puskas e i suoi compagni. Avevano eliminato alla svelta il Brasile e l'Uruguay. Dovevano affrontare in finale la Germania. Figuriamoci se si preoccupavano. Avrebbero vinto a mani basse. Lo dicevano tutti.

Solo il giovane giornalista sportivo Gianni Brera, alla "Gazzetta dello Sport" osava avanzare qualche dubbio. È un orologio di alta precisione, questa Ungheria. Quindi basta un granello di sabbia, ad incepparlo. Dopo aver condotto per due a zero (è fatta, è finita) quell'Ungheria fantasiosa, fragile e fiabesca si fece rimontare e battere dai tedeschi. Come volevasi dimostrare.

Fu allora che ci convertimmo al "brerismo". Non abbiamo più cambiato fede, dopo. Questo e un uomo - ci dicevamo per convincerci - che conosce l'imprevedibilità del gioco del pallone. "Il calcio, mistero senza fine bello", avrebbe scritto più tardi. Questo è un uomo -aggiungevamo - che conosce la "pesantezza" del calcio, come di ogni altro sport. Come ogni altra umana attività.

La pesantezza del pugno del pugile. La pesantezza della palla da tennis. La pesantezza della penna per chi scrive.

Nessuno prima di lui aveva mostrato tanta dimestichezza con il peso corporeo di quell' indecifrabile mistero agonistico. Dove alla fine vince sì, come in ogni cosa, la leggerezza: dello stile, dell'inventiva. Ma solo dopo aver avuto ragione della corpulenta opposizione della materia.

Nessuno prima di lui aveva osato dire che "il ciclismo in fondo è l'arte di tenere il soprassella sulla medesima". E guai al ciclista che soffre di foruncoli. Si può perdere un giro d'Italia, per quello. Nessuno aveva osato rivelare che il vincitore di uno dei primissimi Giri d'Italia, Ganna, intervistato sul traguardo finale, aveva dichiarato con tutta semplicità: "Me fa tant mal el cù". Gli doleva il soprassella.

Nessuno se non lui poteva iniziare un ritratto di Primo Carnera - pugile tanto gigantesco quanto inarticolato con le parole: "La notte che nacque Primo Carnera ragliavano gli asini". Questo giornalista sportivo, dicevamo a noi stessi, appartiene alla grande tradizione popolaresca della letteratura italiana, ai limiti del dialettale. Questo sta di casa dove stavano di casa il Pulci, il Berni, il Ruzzante, il Folengo.

Scrittore di razza contadina, quindi aristocratica (esiste un'altra aristocrazia possibile?) conosceva il peso della zappa, la durezza del solco, la resistenza della terra. E della pagina. La "sua prosa briaca", scrisse Cesare Garboli in un memorabile saggio su "Pararagone". "Briaca": cioè piena di succhi, di umori, di fervori. Che sapeva di cultura e di agricoltura.

Quella sua prosa briaca ci è stata utile in tutte le successive polemiche - sempiterne sul come si deve scrivere. Scrivete semplice, semplicissimo, mi raccomando: in modo che tutti vi capiscano. Ci hanno intimato e ci intimano da ogni parte.

Ma che diavolo vuol dire? Scriviamo semplice, semplicissimo solo perché non sappiamo far di meglio. Non possiamo permetterci la prosa rustico-barocca di Brera. Che però -guarda caso- veniva capita anche dal lettore delle cronache sportive. Il quale non è necessariamente (né è tenuto ad essere) lo stesso lettore istruitissimo di Proust, di Musil.

Dubito che quel lettore abbia capito, la prima volta che l'ha incontrata una espressione del tipo: "I'italiano è un biotico amidaceo dai glutei grossi", inventata per difendere il "gioco all'italiana". Ma capiva quel che Brera voleva dire. Dobbiamo giocare da buoni contadini quali siamo, ruvidi e tosti. Scarpe grosse e cervello finissimo. Così avevamo vinto - Brera lo sapeva dimostrare geometricamente, contro la retorica del "cuore oltre l'ostacolo" - i due Campionati del Mondo del 1934, del 1938.

Questa prosa era apprezzata anche dai professori di Liceo; anche dai professori di Università; anche dai critici letterari. I quali però, quando salivano in treno o in aereo per raggiungere la Giuria di un premio letterario, se ne scordavano. E premiavano puntualmente il fine dicitore la cui opera riflette (indovinato?) la precarietà della crisi della condizione umana. O se preferite, la crisi della precarietà, eccetera.

Dispiaceva a Brera? Non lo so, non l'ho mai capito. Non credo. Credo che li considerasse, semplicemente, degli "abatini".

 Beniamino Placido

 


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